
A chi giova il Coronavirus?
Dai prevedibili produttori di vaccini alle aziende del 5G, chi ci guadagna dal virus cinese, dallo “shock” e dalle narrazioni sullo stato di emergenza in Italia
A chi giova il Coronavirus? Viene spontaneo domandarselo, vista la cattiva abitudine di costruire fortuna sulle macerie. Quelle del terremoto de L’Aquila su cui sghignazzavano i costruttori, e quelle del ponte Morandi che per Conte è un “modello”. Chi ci guadagna dalle disgrazie altrui e da un’Italia cristallizzata cui il governo ha voluto dare il colpo di grazia? La questione non si liquida, purtroppo, con le speculazioni su mascherine e disinfettanti.
I produttori di vaccini
Un’epidemia è un business comodo. Meglio ancora se nel sentire comune si tramuta in una pandemia. Agevola anzitutto chi trae vantaggi dalla produzione di vaccini come la fondazione Bill and Melinda Gates che storicamente “rifornisce” il Rotary del nonno di Butac, e chi come il John Hopkins Center si impegna (in evidente conflitto di interessi) a snocciolare dati per il momento blindatissimi. In Russia, in Cina e un po’ ovunque sono stati sperimentati i buoni effetti dei trenta farmaci che possono curare il coronavirus? All’Italia che vuol spendere miliardi per tutti ma non per il sistema sanitario pubblico e non per garantire cure celeri – non interessa. L’importante è obbedire ai comandi di Aifa, Oms e Iss, ché più sigle ci dicono cosa fare e più siamo convinti di fare come dice La Scienza. Quella osannata e altrettanto sconosciuta da Speranza. Meglio, comunque, fare come nel 2009 e acquistare 24 milioni di dosi di vaccini al costo di 184 milioni di franchi, lasciarne 23 milioni inutilizzati (fonte: Rsi) con la certezza di aver fatto un lavoro molto utile per i potentati, molto meno per gli altri.
La sanità privata
Il sistema sanitario in questi giorni è diventato l’orgoglio di tutti: il coronavirus ha fatto il miracolo di far dimenticare i casi di malasanità che erano all’ordine del giorno e i tagli drammatici cui il SSN è stato sottoposto negli ultimi dieci anni. Una situazione che in molti nosocomi ha reso problematico reperire garze, gesso, macchinari che sono all’abc della diagnostica, e che in ultima analisi nega a tutti la possibilità di ricevere cure basilari. Figurarsi, in un sistema in cui ci si è abituati a vedere le barelle nei corridoi, quanto sia facile reperire posti di terapia intensiva. È un crollo voluto, che genera sfiducia e fa scappare i malati lontano dai servizi statali a favore di quelli privati, gli stessi che qualcuno ora con la scusa del Coronavirus vorrebbe irrorare.
Piattaforme online e produttori di software
Nel corso di qualche settimana Conte è passato dal lasciamo aperto tutto perché non c’è nessuna emergenza al “non baciamoci e non abbracciamoci” stabilito perfino per decreto. Così come il ministro dell’Istruzione Azzolina è passata dal mandare in classe bambini e ragazzi che tornavano dalla Cina al chiuderli in casa confinati sui pc. E, come se un paio di settimane non si potessero recuperare in estate in via del tutto eccezionale, si è affrettata a battezzare anche tra i banchi di scuola la piattaforma a trazione europeista Indire, presieduta da Giovanni Biondi. La stessa che produce software che saranno potenzialmente in grado – grazie all’espediente dei computer dei nostri ragazzi – di entrare nelle nostre case e nelle nostre abitudini, proprio come faranno i Trojan delle intercettazioni e proprio come sta facendo la presunta emergenza di Coronavirus che ci obbliga a non uscire, ci dice cosa dobbiamo leggere, cosa comprare e cosa indossare. La deriva autoritaria e le manie di controllo di Conte e sodali, insomma, vanno a toccare ormai ogni aspetto.
Le aziende del 5G
Immaginiamoci l’emergenza del Coronavirus in Italia come una sorta di esperimento sociale dove, tentando di cavalcare quanto è (realmente) accaduto in Cina, si tenta di far passare misure draconiane. Che siano in grado – per esempio – di normalizzare e far digerire i licenziamenti di massa in realtà provocati dal dumping salariale. La prima fase è instillare subdolamente i presunti vantaggi dello Smart-working, il lavoro da casa, e nel far questo generare la paura verso un proprio connazionale – che bisogna allontanare di qualche metro mentre il cinese bisognava abbracciarlo – è cosa risolutiva. La seconda è consegnare un licenziamento che deve essere accettato, perché generato da una situazione di emergenza e dai fantomatici fallimenti economici. Il terzo e ultimo step è l’accettazione definitiva del 5G su cui le aziende, senza soffermarsi sui pericoli legati alla salute, hanno investito cospicue risorse. Anche per poter risparmiare, non molto lontano, sulle risorse umane.
Euro-globalisti
L’Europa, le nefandezze dell’Area Schengen e le situazioni limite che si registrano in frontiere come quelle greche, dovrebbero essere additate come le prime concause di una possibile pandemia. Invece, complici le opposizioni silenti, la colpa è sempre nostra o del nostro vicino. Del Nord che “ha portato il virus” o del Sud che “ora snobba i settentrionali”. Si tratta di costruzioni inverosimili e forse a pannaggio di qualche ignorante: il virus dal primo dicembre (se non prima) si radicava nell’Hubei con il placet del governo cinese e delle aziende della Optrics Valley di Wuhan. La gente del Sud? Non è cambiata col Coronavirus, e come sempre rimane solidale e ospitale, di una solidarietà disinteressata sconosciuta agli approfittatori dell’immigrazione di massa. Chi afferma il contrario, lo fa con l’obiettivo di minare l’Unità nazionale per sottrarre all’Italia fette di sovranità alla chetichella. Lo fa a parole, o con misure paradossali come il taglio dei parlamentari.
Governo giallo-rosso
L’agone mediatico del Coronavirus è un territorio dove Giuseppe Conte si sta scontrando volentieri. Uomo delle lobby che ha conservato la delega ai Servizi e che del potere sembra apprezzare l’idea di dirigere i giochi in tempi di disastri (e non a caso è stato politicamente battezzato dalla vicenda del ponte Morandi) è passato da invisibile a sovra-esposto, con apparizioni continue. Se prima si schiacciava rapidi il telecomando per non assistere alla sua retorica sbiascicante, a causa del virus cinese si pende dalla sua erre arrotata. Vietare gli assembramenti, ha inoltre ripercussioni dirette sul lavoro dei suoi competitor politici. Congressi, manifestazioni, riunioni: tutto (quasi tutto) è congelato, e Conte è l’uomo al comando chiamato a gestire l’emergenza, forte di un ministro alla Salute laureato in Scienze politiche.
L’immancabile Africa e gli islamici
Prima le mascherine non servivano: erano necessarie solo a chi aveva contratto il virus e voleva proteggere non sé stesso, ma gli altri. Addirittura, potevano diventare “dannose” se indossate male. Da un giorno all’altro sono diventate materiale da donazione ed essenziali. Nelle zone rosse, presenti una tessera sanitaria e te ne prendi non una, ma tre. Molte le ha donate l’Eni e mentre il fior fior degli esperti consigliava agli italiani di non comprarle, l’Associazione degli islamici in Italia invitava i propri adepti ad acquistarne quante più potevano per poi “regalarcele”. Un non-sense: se fossero rimaste nei negozi, la gente le avrebbe comprate da sé anziché incorrere nei prezzi esorbitanti e nelle speculazioni della rete. Ma vuoi che in tutto questo non si trovava il modo di agevolare la solita Africa? È da qui, ha fatto sapere in conferenza stampa il commissario all’Emergenza ed capo della Prociv Angelo Borrelli, che il governo ha acquistato quasi mezzo milione di mascherine, non sappiamo ancora a che costo.
Detrattori del Made in Italy
Il cibo Made in Italy? Per Teresa Bellanova prima era potenzialmente in grado di veicolare il virus (anche se noi di crudo completo e in movimento non mangiamo nulla) poi era “sotto attacco”. Per Macron giunto a Napoli per dare un segnale di sostegno a distanza, era tutto tranquillo, ma poi le tv nazionali francesi si sono messe – con vero buon gusto – a partorire personaggi che scatarrano sulla pizza. Le pietanze nostrane sono da sempre, del resto, un qualcosa da demolire. I nostri panificati all’Ue non sono mai piaciuti perché il forno a legna non va bene (!!!), salumi e formaggi sono troppo salati solo perché buoni come i nostri in Germania e Francia non ci sono e, infine, tutto quello che si voleva salvare da oggi potrà essere potenzialmente infettato da un virus la cui presenza e reale diffusione in Italia rimane tuttora da accertare. Mancano infatti dati incrociati: il governo ha centralizzato e chiuso tutto, mentre Speranza spendeva i soldi del ministero della Salute per pagare Twitter, Facebook e Youtube: ma cosa c’era da nascondere? Forse, la normalità della situazione italiana.
Informazione al guinzaglio
L’occasione era troppo ghiotta per non dare una stoccata all’informazione non allineata. Quella disprezzata dall’Ordine dei giornalisti e dai suoi presidenti regionali, che non hanno mancato di propinare le solite lezioni su cosa si deve dire e come si deve dire. Tutto quello che è risultato scomodo in tema di Coronavirus è stato bollato come fake news, complici presunti debunker che anziché stanare le bufale, le creano. Bill Gates nella narrazione comune è rimasto comunque un filantropo, tanto più che ha sparso un po’ di fumo con una donazione da dieci milioni, che equivale più o meno al costo mensile di manutenzione del suo yacht a idrogeno “Aqua”. Quello che non tornava si è tentato di farlo sparire, mentre il resto è stato manipolato.
Creditori e debitori
Non poteva mancare il giro di vite di aziende e banche. Tanto che il briefing quotidiano di Borrelli ormai sembra Carosello: è un fiorire di sponsor e ringraziamenti. In queste ore c’è chi mendica per gli operatori turistici, chi fa la questua per gli albergatori, e nessuno che si faccia due domande per le famiglie e per quelli che a oggi dovrebbero essere 148 morti. Il condizionale rimane d’obbligo, visto che sulla testa di Conte e Speranza e di due presidenti di Regione, Zaia e Fontana, pesa una denuncia-querela per procurato allarme e diffusione di informazioni false. Ci torneremo. Un’occasione di “shock”, per dirla tristemente alla Renzi, che non poteva sfuggire alla solita Banca mondiale (che ha tra i suoi cavalli di battaglia proprio la BRI, la cosiddetta Via della Seta) che in questi giorni ha deciso di finanziare con dodici miliardi i Paesi in via di sviluppo, dunque quelli del G20. L’Italia che stando a stime ufficiali sarebbe terza per numero di vittime, non c’è.
Le assunzioni dirette
Che c’è di meglio di approfittare dell’emergenza per procedere alle assunzioni dirette evitando ogni tipo di selezione trasparente e assumendo come è buon costume parenti e amici? C’è anzitutto l’auspicato turnover nella stessa sanità, che per qualcuno doveva riguardare “50mila infermieri in arrivo dall’Africa, di cui l’Italia è sprovvista”. Ma non era l’Italia la terra dei laureati in medicina a spasso? Il ricambio comunque va fatto, e il virus è un’occasione troppo ghiotta. Vi lavora senza sosta anche l’instancabile Del Re, che in queste ore sta facendo entrare in Italia due epidemiologi sudanesi che “studieranno” il Coronavirus allo Spallanzani.
Imprese in Cina
E la Cina? Periodicamente, è la prima a trarre vantaggio da epidemie che per alcuni sono organizzate. La sovrapopolosa Hubei, per non annullarsi, si organizzava in tempi non sospetti con bandi e scorte di ogni tipo. Intanto, si verificava la corsa di ben sette società del settore bio-medico e tecnologico, tra cui figura anche la Bing Yi Tecnology dell’onnipresente Gates. La popolazione si sfoltiva quel tanto utile, e intanto il ministro degli Esteri affermava che “Il virus è stato preparato per l’Europa”. Il 5G era l’altra carta, quella che potenze come gli Stati Uniti avrebbero preferito che Pechino non sfoderasse. Ma ora l’emergenza potrebbe far uscire dalla porta e far rientrare dalla finestra la tecnologia di quinta generazione.
OPINIONI
Alluvione in Emilia, l’ipocrita circo mediatico per nascondere la verità
E’ un bilancio da guerra quello dell’ultima alluvione in Emilia Romagna. Un copione destinato a ripetersi ancora e ancora, una volta in questo pezzo d’Italia e una volta in quell’altro

Quattordici morti e 36mila sfollati. Abitazioni, strutture, aziende, fabbriche e campi da coltivazione distrutti, con il fango che inghiotte tutto e porta con sé devastazione e precarietà. E’ un bilancio da guerra quello dell’ultima alluvione in Emilia Romagna. Un copione destinato a ripetersi ancora e ancora, una volta in questo pezzo d’Italia e una volta in quell’altro, perché i miliardi stanziati dai vari governi per mitigare gli effetti del dissesto idrogeologico – sia esso frutto di comportamenti umani irrispettosi o di eventi naturali – non vengono mai impiegati dove servono.
Costruzione di dighe di contenimento, pulizia degli argini di fiumi e torrenti, prevenzione dell’abusivismo e suoi rimedi: nonostante le iniezioni continue di denaro (tanto), è ormai abitudine consolidata trascurare tutto, perché tanto poi a danni fatti si mette in moto la solita macchina dell’emergenza. Dopo l’acqua iniziano a piovere i miliardi, inizia il “magna magna” di chi controlla il business della solidarietà e si fa a gara a chi è più bravo a dire la frase a effetto per sostenere le popolazioni colpite, a chi fa la donazione più cospicua o a chi si intesta il gesto più eclatante.
Tutto doveroso, sia chiaro, ma non saranno certo 900 euro a testa o la premier in stivali a riportare in vita quattordici persone, oppure a restituire ai romagnoli le attività andate distrutte, forse per sempre. Senza contare che il circo mediatico che si è attivato fin da subito è tuttora teso a nascondere quello che conta davvero: le responsabilità. Quelle che negli ultimi anni – stando ai dati pubblicati da Legambiente – hanno fatto registrare dal 2010 a oggi 510 eventi alluvionali (per contare solo quelli censiti), con i relativi danni a cose e persone.
Si poteva evitare tutto questo? Di chi è la colpa? Cosa è mancato e continua a mancare? Cosa non hanno fatto e cosa hanno sbagliato gli enti che negli anni hanno amministrato i territori colpiti? E ancora: come evitare che catastrofi del genere si verifichino di nuovo? Perché se le alluvioni in Italia sono diventate la “nuova normalità” – per rubare un’espressione usata in epoca covid – si deve pensare che esista una certa volontà o quantomeno una qualche tolleranza verso questi fenomeni assolutamente prevedibili ed evitabili. Si sa che prima o poi pioverà, e oggettivamente esistono modi anche sofisticati per verificare se il territorio è pronto a gestire eventi piovosi di una certa portata. Se non lo è, basta intervenire, senza aspettare nuovi danni.
Scomodare il cambiamento climatico o “la siccità che rende i terreni impermeabili” non basta più, sono scuse che non possono reggere a lungo e soprattutto non possono bastare a chi ha perso tutto, tanto più che se le alluvioni in Europa sono un costume nazionale prettamente italiano un motivo ci deve essere.
OPINIONI
Non convince il presidenzialismo, né il premierato
“In una democrazia l’importante non è la governabilità, ma la rappresentanza” – di Vincenzo Musacchio

L’Italia è una Repubblica parlamentare con una forma di governo dove gli elettori votano i rappresentanti del Parlamento, i quali poi nomineranno il Presidente della Repubblica. Quest’ultimo nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, che presiede il Governo. Nella Repubblica presidenziale gli elettori (cioè il Popolo) eleggono direttamente il Presidente della Repubblica, il quale diventa sia Capo dello Stato, che del Governo. Un tipico esempio di questa forma di governo è in vigore negli Stati Uniti. Il Premierato è una “pseudo-forma di governo” non ben definita basata sulla legittimazione popolare del Capo di Governo (Premier).
Quale che sia il metodo di designazione di quest’ultimo e la qualificazione costituzionale del ruolo, ciò che determina la natura della sua leadership (e degli assetti di regime politico che ne conseguono) è il tipo di rapporti di potere che lo legano al Governo, da una parte, e al Parlamento, dall’altra: per cui si parla di premierato “forte” o “debole”, a seconda del modo e del grado di autonomia e di supremazia nel rapporto Governo-Parlamento. In Italia una forma di premierato forte l’abbiamo vissuta già più volte.
Quale delle tre forme di governo, presidenziale, parlamentare o premierato, sia più idonea ad avvicinare l’Italia ai Paesi in cui la democrazia funziona da secoli? La mia scelta cade sulla forma parlamentare. È l’opzione più democratica e più italiana anche se non ha espresso mai a pieno le sue potenzialità per le degenerazioni dei partiti che da centro di interessi pluralistici sono divenuti poi partitocratici originando una precaria governabilità e crisi politiche frequenti.
Una democrazia rappresentativa, per funzionare, potrebbe anche essere bipartitica. Del tema, del resto, ne discussero anche i nostri Padri Costituenti con l’obiettivo di semplificare il quadro politico frammentario. Mi appello a tal proposito a Piero Calamandrei che in sede Costituente così disse: «Come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti, ma che deve funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità di partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione?».
Ora il centrodestra, forte di un ampio consenso popolare, ci riprova con l’opzione presidenzialista, ma senza porre pregiudizi o preclusioni su altri modelli di riforma che mettano comunque i cittadini al centro delle scelte. Io sono per il legame diretto tra elettore ed eletto con le preferenze e con un bipartitismo alla inglese per superare definitivamente la stagione degli esecutivi che sovrastano il potere legislativo. Se riforma ci sarà spero sia con una maggioranza dei due terzi del Parlamento, evitando il rischio della demolizione con i referendum confermativi. La vera forza di una democrazia a mio parere non si gioca sulla governabilità ma sulla rappresentanza.
OPINIONI
La storia recente ci insegna che i poteri del premier vanno limitati, non ampliati

I condizionatori di Draghi (da posporre alla Pace), gli inseguimenti di chi fa jogging promossi da Conte e i nostalgici vicini alla Meloni avrebbero dovuto quantomeno insegnarci una cosa: non bisogna ampliare i poteri del premier ma, semmai, limitarli. Invece l’azione dei governi che si succedono è tutta tesa a limitare le prerogative del Parlamento, di fatto annullando la rappresentanza politica. Dimenticando, spesso, che la divisione dei poteri è condizione necessaria in democrazia, come racconta lo scacchiere internazionale messo a ferro e fuoco in Paesi che hanno un uomo solo al comando.
Aspetti che non sembrano sfiorare il governo, che ha annunciato che sul premierato andrà avanti comunque, opposizione o non opposizione. Ma allora a che servono i tavoli che si apriranno domani? E perché consegnare la parola ai cittadini solo alla fine di tutto l’iter, per giunta per mezzo dell’ennesimo Referendum farsa?
Si tenta di concentrare nelle mani di un unico soggetto un potere sempre crescente, e per fare cosa? Non per emanciparsi dall’Unione europea, tantomeno per ridare al Paese la sua sovranità – concetto che Fratelli d’Italia ha dimenticato una volta giunto al governo – o la crescita economica che merita. La preoccupazione è che il semipresidenzialismo, il premierato o il sindaco d’Italia – comunque si chiami il tentativo di mettere da parte la Repubblica parlamentare – possano essere solo l’occasione per calcare la mano su tutta una serie di cose che non si riescono ad attuare per una serie di (ovvie) resistenze da parte della società civile.
Fa pensare – e discutere – che a volere più poteri sia un governo che ha un ministro dell’Interno che crede ciecamente nei presunti pregi del riconoscimento facciale, e che ha un sottosegretario all’Innovazione che lavora alacremente per portare a termine quanto avviato dai governi Conte e Draghi. Che, per di più, ha finanziato la corsa agli armamenti di uno Stato estero, violando quel “L’Italia ripudia la guerra” di costituzionale memoria. Cosa succederebbe in un ipotetico futuro in cui la Camera e i parlamentari saranno acqua passata, in cui gli enti come Regioni e Comuni saranno simulacri svuotati di significato e basterà una firma del super-premier (magari con la contro-firma del super-presidente della pseudo-Repubblica) per prendere le decisioni che contano davvero? Come sarebbero gestiti eventuali periodi di emergenza, che già di per sé consegnano nelle mani del premier prerogative ampliate? Domande che ancora non sono entrate nel dibattito ma da cui si dovrebbe partire – a modesto parere di chi scrive – prima di giungere a decisioni drastiche e affrettate.
OPINIONI
Un altro atto di vandalismo compiuto dai cosiddetti attivisti per l’ambiente

Palazzo Vecchio, simbolo dell’architettura civile trecentesca fiorentina, imbrattato di arancione e la Fontana della Barcaccia di Roma inquinata con del liquido nero. Si difenderebbe così l’ambiente secondo gli “attivisti” di un collettivo che da settimane compie atti di vandalismo in giro per l’Italia. Attacchi ai beni culturali nazionali che con la protezione delle risorse non c’entrano nulla, come dimostra lo spreco di acqua e solventi che segue questo tipo di azioni dimostrative e che serve a ripristinare – per quanto possibile – i monumenti oggetto di deturpazione.
“Difendere l’ambiente”, dunque, inquinando le fontane, proteggere il paesaggio rovinando i palazzi storici, magari per fare in modo che le nuove generazioni (quelle che si scomodano tanto spesso) non ne possano fruire affatto. Una schizofrenia generalizzata che fa il paio con un ambientalismo fanatico e pericoloso che sta provocando danni tangibili e presto quantificabili, pensando sul bilancio di Comuni già in rosso. Dopo i danni provocati alla Fontana della Barcaccia, i cosiddetti attivisti rischiano ora una denuncia per danneggiamento.
Sulla vicenda si è espresso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: “L’ennesimo, gravissimo, episodio di questa mattina che ha colpito uno dei monumenti simbolo di Roma, la Fontana della Barcaccia di Piazza di Spagna, è la goccia che fa traboccare il vaso. È ora di dire basta: siamo davanti ad una sistematica azione di vandalismo del nostro patrimonio artistico e culturale che non c’entra assolutamente nulla con la tutela dell’ambiente. Chi danneggia i nostri beni culturali non può passarla liscia e va punito severamente. Anche per questo stiamo studiando una norma che faccia pagare ai responsabili di questi danni gli interventi necessari per il ripristino dei luoghi, spesso costosi perché richiedono specialisti e attrezzature adeguate”. Dello stesso tenore quanto affermato dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri: “Queste persone dovranno rispondere di quanto hanno fatto. Un atto illegale, dannoso e sbagliatissimo. E’ giusto che rispondano sulla base della legge e bisogna essere severi”.
Le reazioni della politica, comunque, rimangono piuttosto timide, e nessuno che si domandi com’è possibile che si riesca a compiere gesti simili eludendo la sorveglianza di chi è preposto al controllo dell’integrità dei monumenti storici.