

VISIONI UNDERGROUND
Che fine hanno fatto i P.O.D. dopo la damnatio memoriae a cui il mainstream ha tentato di relegarli
C’è chi li ricorda per i singoli pluripremiati Youth of the Nation e Alive e chi non ha mai dimenticato il ritornello energetico di Boom. Correva l’anno 2011 e per i P.O.D. era il momento d’oro di Satellite, l’album che era riuscito nell’impresa di mettere d’accordo la critica di massa e il panorama indipendente più esigente. Un frangente prima della damnatio mamoriae a cui tenterà di relegarli subito dopo il mainstream, complice forse il fatto di essersi dichiarati liberamente, anche a successo raggiunto, una band “Christian Metal”.
Un qualcosa che, prevedibilmente, non ha mancato di attirare le critiche degli intolleranti, in Italia come all’estero. Perché se è vero che per molti artisti o cosiddetti tali è facile far parlare di sé con atti dissacratori e blasfemi per poter avere a tutti i costi quegli effimeri quindici minuti di fama di cui parlava Andy Warhol, lo è altrettanto che l’esternare la propria adesione alla religione cristiana continua a scatenare le ire di chi non tollera qualcosa di diverso dalla sua personale, soggettiva e limitata visione delle cose.
Ma la “missione” dei P.O.D. è continuata comunque, incurante e tenace, anche lontano dai riflettori più in vista: anzi da allora sono seguiti dieci album: “Payable on Death” (2003), il secondo volume di “The Warriors” (2005), “Testify” (2006), “The Atlantic Years” (sempre del 2006, raccolta dei maggiori successi sfornati fino a quel momento), “Rhapsody Originals” (2008), “When Angels and Serpents dance” (2008), “Murdered Love” (2012), “SoCal Sessions” (2014), l’album concettuale “The Awakening” (2015) e infine “Circles” (2018).
La band di Sonny Sandoval – frontman di origini italiane – dopo tanti punti fermi e traguardi raggiunti oggi si racconta così: “Dal 1992 i P. O. D. hanno radunato il pubblico mondiale attorno a un ibrido ipnotico composto da hard rock, hip-hop, reggae e alternative, punteggiato da un messaggio di unificazione e da un potente impegno a perseverare. Attraverso tutte le nostre lotte, trionfi, momenti buoni e momenti cattivi, credo ancora che questa band abbia uno scopo. Abbiamo iniziato che eravamo degli adolescenti, e ci incontriamo ancora come fratelli che vogliono lasciare un segno positivo e duraturo nel mondo”.
“Per quanto la musica sia cambiata – dice ancora Sonny – continuiamo a farla, perché sappiamo che qualcuno sta ascoltando. È una cosa che abbiamo deciso come band. Vogliamo farti sorridere, dirti che vali e che devi avere la forza di superare questo momento. Sappiamo di avere la capacità di scrivere una canzone che possa parlare a una persona per il resto della sua vita. Tutti e quattro siamo grati di contribuire.”
Sembra facile, ma la tenacia del frontman dei P.O.D. e degli altri componenti della band è frutto di un percorso accidentato e personalmente tribolato, che alla fine li ha avvicinati al messaggio cristiano e avvinghiati in maniera indissolubile ai generi più disparati della musica. La droga, la vita di strada, la situazione familiare non facile. Poi, la “svolta”. “Ho voluto fermare quello che mi stava causando danni”, racconta Sonny. “E’ stata la mia sveglia. Non siamo cresciuti in una casa religiosa, ma nei suoi ultimi giorni mia madre stava leggendo la sua Bibbia. Ho percepito le cose in maniera diversa, come se un nuovo stato mentale avesse guarito la mia famiglia. Questa band e le sue contaminazioni metal, punk, rap e raggae, mi hanno tenuto fuori dai guai. Poi, abbiamo iniziato anche col jamming” (genere musicale caratterizzato da sessioni di improvvisazione con altri musicisti).
” Se ascolti davvero i nostri dischi, ci trovi un sacco di anima”, dice invece Marcos. “Siamo una band laboriosa, e siamo qui per la gente. Vogliamo ispirare senza un’agenda. Vogliamo mostrare amore e luce. L’onore e l’integrità – chiude, ancora, Sonny – sono più importanti di qualunque altra cosa. Sto bene perché sono vivo, e finché faccio un po’ di musica”. Per sentirla, però, i fan italiani dovranno aspettare, visto che dopo gli ultimi due live romani del 2019 non si intravede nulla in programma per il nostro Paese. Intanto il primo settembre i P.O.D. saranno al Rocklahoma, il festival americano che nel corso di tre giorni ospiterà diversi artisti rock e alternative, sia noti che emergenti.
ARTE & CULTURA
I cocci, le rose e il deserto. Il mondo di Luca Cassano

“Due note soltanto” è una delle dieci canzoni che compongono “Cocci sparsi”, viaggio dal piccolo, personale e domestico al grande e universale. Si guarda alla vita partendo, per forza di cose, da quella che si conosce meglio, la propria, per allargare gradualmente l’inquadratura canzone dopo canzone. Il disco è un viaggio fra i generi e le sonorità, nato dall’incontro/scontro fra i mondi musicali di Luca Cassano (voce, penna e anima de Le rose e il deserto) e Martino Cuman (Non voglio che Clara) che ha prodotto il disco, oltre a suonare il basso e cantare i cori su tutti i brani. Il disco è ispirato dalle sonorità acustiche e dall’elettronica rarefatta delle ultime produzioni di Niccolò Fabi e Piercortese, mantenendo al tempo stesso la profondissima impronta cantautorale di dieci canzoni nate sul taccuino e sulla chitarra.

Le rose e il deserto è il progetto artistico di Luca Cassano, che si definisce “un po’ calabrese e un po’ pisano, attualmente milanese”. Il testo è al centro della ricerca del cantautore cosentino: l’interesse è verso il potere evocativo di suoni, immagini e parole. “Le rose e il deserto – ha fatto sapere l’artista – è un progetto con due anime. Da un lato l’esigenza di esternare le proprie inquietudini, le paure e le passioni, la malinconia. Dall’altro la voglia di gridare contro le ingiustizie che quotidianamente osserviamo”. Nato a Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza, nel 1985, studia sin da ragazzino chitarra e pianoforte. Il suo periodo milanese è quello dei Citofonare Colombo. Dopo lo scioglimento del duo, lavora al progetto live propedeutico al lancio de Le rose e il deserto, che lo porterà a suonare nelle realtà indipendenti di tutta Italia.
ARTE & CULTURA
Peja Jazz Festival, attesa per Vinicio Capossela
Altra tappa del “Balkangiro” dell’artista poliedrico, che il nove sarà in Macedonia

A Peja, nella regione occidentale del Kosovo, si esibisce martedì 8 novembre il cantautore polistrumentista Vinicio Capossela, nella giornata di chiusura del “Peja Jazz Festival”. Il concerto, realizzato col sostegno dell’Ambasciata d’Italia a Pristina e dell’Istituto Italiano di Cultura di Tirana nell’ambito del piano di promozione integrata “Vivere all’Italiana”, è in programma alle 20 al Cinema Jusuf Gervalla. Il “Balkangiro” dell’artista è iniziato a Belgrado con la tappa del 2 novembre e proseguito con Scutari e Tirana. Il 9 novembre sarà la volta di Skopje, in Macedonia.
IL SACCENTE
“Spacewalker” anticipa Polaris, il nuovo album dei Medusa’s Spite
Nuova prova (superata) per la band electro-pop romana. Il singolo anticipa l’album “Polaris”

Si chiama “Spacewalker” il nuovo singolo del Medusa’s Spite. Il brano è stato scritto da Stefano Daniele e arrangiato insieme al fratello Paolo, co-fondatore della band e responsabile delle parti elettroniche. Il missaggio è stato perfezionato a Londra, agli Abbey Road Studios, da Paul Pritchard. Come per gli album precedenti, la band si è avvalsa della post produzione e mastering al The Exchange di Mike Marsh.
“Spacewalker” il secondo singolo dopo “Destinations” (120.000 streaming su Spotify) ad aprire l’album in arrivo “Polaris”, il quarto per la band. Spacewalker è una miscela di elettropop che potremmo definire romantic mischiata all’energia di un’elettronica compatta influenzata in parte dal meglio delle costruzioni anni novanta e dall’esperienza dell’ultima generazione di producer: Vitalic, Chemical Brothers, Depeche Mode e Prodigy, ma anche il brit rock di Mansun e Kasabian.
Stef Daniele, cantante e fondatore insieme al fratello Paolo della band, così disegna il nuovo percorso della band: “Spacewalker dopo Destinations è il secondo di 12 brani che andranno a chiudere il progetto aperto “Polaris”, il nostro quarto album. Abbiamo scelto di concentrare la nostra attenzione su ogni brano e promuoverlo come fosse un album, semplicemente perché pensiamo che ogni brano di Polaris lo meriti come impostazione, costruzione e forza emotiva”.
I Medusa’s Spite nascono nel 1996 e iniziano una ricerca approfondita nel campo della musica elettronica muovendosi verso un misto di generi diversi come electro, techno e hardcore. “Floating Around”, il loro primo album, prende forma tra il 1997 e il 1998 (vanta 36.000 copie vendute tra Italia, Germania, Austria e Svizzera). Dopo Floating Around, la band ha prodotto i due album Morning Doors e Morning Doors (The Glass Path), un concept di due cd dove li troviamo anche come produttori esecutivi. L’intero lavoro è stato registrato e mixato tra Roma (Spite room) e Liverpool (Parr street studios) e masterizzato a Londra presso “The Exchange”, lo stesso luogo in cui il suono di “Floating around” ha ottenuto il suo colore definitivo.
“Life in the year 2001”, “Will hunting”, “Soon” e “Cat Black D” sono i video diretti da Simone Pellegrini con cui la band continua a collaborare attualmente. “Soon” in particolare ha ottenuto 4 nomination e il premio per la migliore regia al MEI 2008 – Independent Italian Video Awards dopo che la musica della band è stata usata più volte come colonna sonora per programmi TV e serie, film ecc.
Destinations è stato il primo di una serie di singoli che insieme a Spacewalker verranno raccolti nel progetto aperto Polaris. I brani prodotti dalla band vengono mixati negli Abbey Road Studios da Paul Pritchard e masterizzati a Exmouth al The Exchange sempre da Mike Marsh. Onirica è l’etichetta che cura la produzione sonora e video dai fratelli Stefano e Paolo Daniele, fondatori del gruppo. I Medusa’s Spite sono attualmente formati da Stefano Daniele, Paolo Daniele, Axel Donnini e Guido Cascone.
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it
VISIONI UNDERGROUND
Irene Jalenti, jazzista e nipote d’arte alla conquista degli USA
Dal sound di Baltimora ai riff di Jones e Wolf, cosa c’è nell’album uscito il 18 febbraio

Esce anche in Italia, dopo l’anteprima negli Stati Uniti, il disco della jazzista Irene Jalenti. Dal 18 febbraio esce “Dawn” – alba – l’album interpretato dalla cantante e compositrice umbra da oltre un decennio residente a Baltimora. Irene Jalenti – nipote del cantautore Sergio Endrigo – rivendica un posto di rilievo nel mondo del jazz per il suo talento musicale, apprezzato negli States ma coltivato nella città di Terni, dove è nata e cresciuta. L’album raccoglie quattro brani originali e sei cover, il tutto interpretato insieme a strumentisti di Baltimora, al trombettista Sean Jones e al vibrafonista Warren Wolf. Sebbene “Dawn” sia la sua prima registrazione da solista, Jalenti è stimata da oltre un decennio dalla comunità jazz nelle aree combinate di Baltimora e Washington DC, conosciute localmente come il distretto “DMV”, comprendente Maryland e Virginia.