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"Morto per una serie di disattenzioni". L'Odissea di A., vittima di un caso di malasanità in Calabria | Rec News dir. Zaira Bartucca "Morto per una serie di disattenzioni". L'Odissea di A., vittima di un caso di malasanità in Calabria | Rec News dir. Zaira Bartucca

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L’Odissea lunga otto ore, poi il decesso. Storia di Antonio, vittima di un caso di malasanità

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Commissariamenti, carenze di posti letto, personale e attrezzature, negligenze. Pur esistendo picchi di eccellenze, curarsi e ricevere soccorso in Calabria si rivela spesso un terno al Lotto, con esiti anche letali. Lo documentano i numerosi fatti di cronaca e lo sa bene la famiglia di Antonio Caroccia, 72enne di Guardia Piemontese. E’ il 5 marzo di quest’anno quando – intorno alle 18.00 – avverte un dolore lombare che nel giro di una decina di minuti si trasforma in un malessere generale. Alle 18.50 circa è chiaro che la situazione è preoccupante, ma recuperabile. Nel giro di un’ora il signor Caroccia tenta di farsi spalmare un unguento nell’illusione di poter allievare il dolore, cerca di misurarsi la pressione e alla fine si accascia al suolo. Sta male ma da lì alla serata rimarrà“vigile, collaborante e orientato nel tempo e nello spazio”, si legge nella relazione del Tirrenia Hospital di Belvedere Marittimo, dove giungerà alle 19.31. Di tenore differente quanto scritto dall’ASP di Cosenza, dove si parla di “paziente non cosciente” già alle 18.48.

Il signor Antonio non aveva malattie, anzi – pur assumendo farmaci – era un uomo che si definirebbe, almeno in apparenza, in salute. “Lui era quello che a 72 anni riusciva ancora a rincorrere un mezzo”, racconta la figlia senza riuscire a celare l’emozione. Quel pomeriggio tutto lascia pensare che può farcela: l’ambulanza del PET di Cetraro è fortunatamente nei paraggi e arriva sul posto nel giro di 7 minuti. Ma da lì a poco iniziano una serie di eventi concatenati che porteranno nel giro di diverse ore al decesso. Tutto inizia da un tracciato diagnostico ECG teletrasmesso dal 118 ma mai arrivato all’ASP di Cosenza. “Problemi di linea dati”, si legge nella relazione del Direttore della centrale operativa dei soccorsi.

In centrale iniziano a piovere chiamate dai famigliari di Antonio e dal medico che ha fatto la prima diagnosi, che per giunta poi si rivelerà errata. Si tenta di capire che fine abbia fatto l’ECG, ma dall’altro capo del telefono – documentano gli audio – si succedono stranianti attese con tanto di registrazioni della “Primavera” di Vivaldi e infermieri flemmatici e in alcuni casi sgarbati, come se in quelle drammatiche ore non si decidesse della vita e della morte di una persona. “Quello che mi fa ancora male – racconta Valentina, una delle due figlie del signor Antonio – è la mancanza di tatto e di umanità da parte di alcuni che hanno dovuto subire mio padre e la mia famiglia”.

Ascoltando le registrazioni audio si sente infatti a un “Che vuoi?”, leggendo i resoconti si apprende che il povero Antonio nelle quasi otto ore angoscianti che sono intercorse tra il malore e la morte, avvenuta all’1.30 di notte, è stato maltrattato dall’infermiere della PET di Cetraro che provvedeva al posizionamento dell’agocannula per la somministrazione di un farmaco e trasportato fuori di casa seminudo in sedia a rotelle per essere imbarcato in una delle ambulanze che ha visto quel giorno. “E’ stata mia mamma a mettergli un plaid addosso”, ricorda la figlia amareggiata e ancora addolorata per quell’immagine del padre. Anche l’istantanea di un autista del 118 fermo e “occupato a fumarsi tranquillamente una sigaretta” mentre il papà aspetta di essere trasportato in un altro presidio sanitario è un qualcosa che non dimenticherà facilmente.

Sballottato da una parte all’altra in forza di convinzioni e diagnosi che poi si riveleranno errate, Antonio riesce a raggiungere il reparto di Chirurgia dell’Ospedale Annunziata di Cosenza solo alle 22.37, quasi cinque ore dopo il malore. Alle 23.10, si tenta di intervenire per l’“aneurisma soprarenale dell’aorta addominale di 10 centimetri” finalmente diagnosticato. All’1.30 di notte subentra il decesso, che forse poteva essere evitato. All’arrivo dei soccorsi – documenta un verbale del 118 – A. è infatti in grado di tenere gli occhi aperti, risponde agli stimoli esterni, è in grado di interloquire, non presenta asimmetrie facciali, disartrie o afasie e non ha emiparesi o ipostenie agli arti. Ma dalla richiesta di soccorso all’arrivo in Chirurgia in codice rosso – complici le diagnosi errate, la mancanza di posti letto e i veti posti al ricovero di cui riferisce la famiglia – trascorrono quasi cinque lunghe ore che saranno, purtroppo, tra le ultime di Antonio. Altre le passerà sotto i ferri, prima che subentri il decesso.

Oggi, nove mesi dopo la scomparsa del loro congiunto, per i familiari è stato il Natale più triste. C’è poca voglia di festeggiare ma non si perde la speranza, perché c’è una battaglia da combattere. Quella per far sì che la morte – per quanto dolorosa e ingiusta – di un marito e di un padre non sia stata vana. “Credo fortemente – scrive a Rec News Valentina, una delle due figlie – che portare all’attenzione della opinione pubblica questi episodi non sia solo un dovere civico ma sia importante per far risvegliare sempre più le coscienze di coloro che devono decidere, nella speranza che le cose cambino“. Parole che vengono dalla Calabria buona, quella che non si arrende alle ingiustizie, non si nasconde e lotta per un futuro in cui non si debba morire per le attese infinite, per la mancanza di posti letto, per le disattenzioni croniche e per le diagnosi errate. Tutte cose che il povero A. ha dovuto subire e che ancora oggi provocano “rabbia e tristezza” nei familiari.

Un futuro dove la vita di un paziente venga considerata preziosa, dove l’assistenza di qualità e la solidarietà prendano il posto delle negligenze e del cinismo che paradossalmente spesso si registra in molti operatori sanitari, cioè in chi è preposto al soccorso e alla cura delle persone. Un caso di malasanità – l’ennesimo in una Regione vittima di tagli selvaggi alla Sanità – che è giunto anche al Ministero della Salute con protocollo 7374-31/03/2022, che per ora si è perso nel turnover politico e nelle richieste di relazioni inoltrate alla Regione Calabria.

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Ennesimo caso di malasanità all’ospedale di Vibo Valentia. Giuseppe Giuliano morto «solo e senza cure»

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Ennesimo caso di malasanità all'ospedale di Vibo Valentia. Giuseppe Giuliano morto «solo e senza cure» | Rec News dir. Zaira Bartucca

Il diritto al soccorso tempestivo e alle cure in Calabria non è poi così scontato. Essere ricoverati in questa regione, come abbiamo avuto modo di documentare, è spesso un terno al lotto. Vale un po’ per tutte le province, ma per Vibo Valentia e per l’ospedale Jazzolino – ormai al centro di innumerevoli fatti di cronaca, tutti rigorosamente senza colpevoli – vale di più. Lo sa bene la famiglia Giuliano, che da giorni si trova immersa nel dolore per la perdita prematura del loro caro.

Stando a quanto hanno riferito i familiari a Rec News, Giuseppe Giuliano – imprenditore della zona – il 14 settembre dopo un episodio di febbre e brividi inizia ad avere una gamba gonfia, arrossata e dolorante. La famiglia intorno alle 14 chiama il Pronto Soccorso dell’ospedale Jazzolino, ma viene a sapere che i tempi di attesa «sarebbero stati addirittura di tre ore».

Giuseppe viene quindi accompagnato al Pronto soccorso da uno dei figli e dalla moglie. Sta male ma, puntualizzano i familiari, riesce «a salire in macchina e a fare le scale di casa da solo, con le sue gambe». Nulla, insomma, che lasciasse presagire che da lì alle ore che sono seguite sarebbe accaduto l’irreparabile. All’arrivo al pronto soccorso, intorno alle 15, Giuseppe viene preso subito in carico, ma da lì a poco, suo malgrado, inizia un calvario fatto di abbandono e mancanza di interventi che porterà – nel pomeriggio – al decesso.

Il tempo perso per il tampone, alla ricerca del covid che non c’è

Giuseppe Giuliano, dunque, si reca all’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia principalmente perché presenta una gamba gonfia, arrossata e dolorante. Giunto al nosocomio, però, il tempo destinato al primo soccorso di emergenza si perde tra il tampone e la ricerca del virus perduto, il covid: «Giuseppe – puntualizza la moglie – aveva una gamba molto gonfia e arrossata, dunque era andato in pronto soccorso per quei motivi». Dopo la sistemazione alla buona all’interno di una barella, inoltre, la famiglia viene allontanata «per i protocolli covid che non sono più in vigore». E’ l’ultima volta che la moglie Anna Maria e i figli Fabrizio, Stefano, TonyCristian e Dario vedono Giuseppe da vivo, anche se sono ancora convinti che al di là delle porte chiuse qualcuno si stia attivando per prestare tutte le cure necessarie.

Giuseppe lasciato morire da solo, al freddo e senza cure

Sono dunque ore drammatiche scandite da mancate risposte quelle che la famiglia Giuliano si trova a vivere dopo l’accettazione in pronto soccorso. Alle 17.15 un’infermiera riferisce che Giuseppe “è in attesa della TAC”, poco più tardi si susseguono le telefonate del figlio TonyCristian e della moglie Anna Maria. Giuseppe dice di avere freddo, racconta la famiglia, e solo la gentilezza di una ragazza che era lì vicino per un parente fa sì che si possa coprire. Tra gli infermieri, a quanto pare, non ci aveva pensato nessuno. Non sono ancora le 18 quando i familiari non riescono più a raggiungere telefonicamente Giuseppe. Verso le 19.15 una dottoressa e un’operatrice sanitaria si avvicinano ai parenti per comunicare la situazione. La famiglia Giuliano si ritrova così a a dover gestire un secco e improvviso «è morto». Lo hanno detto così, raccontano i familiari, «senza dare alcuna spiegazione o motivazione riguardo le cause della morte e rientrando immediatamente all’interno del Pronto Soccorso».

«Non aveva flebo né macchinari per il monitoraggio dei parametri vitali»

Giuseppe sarebbe rimasto tutto il tempo in barella senza essere sottoposto ad accertamenti. «Abbiamo notato – è quanto fa sapere la famiglia – che non aveva alcuna flebo né alcun altro macchinario per il monitoraggio dei parametri vitali, ad esempio per monitorare il battito cardiaco o la saturazione». Un abbandono totale che ha convinto la famiglia Giuliano ad allertare subito le Forze dell’Ordine. «I carabinieri sono giunti al pronto soccorso dopo circa mezz’ora – racconta la famiglia – ma si sono e chiusi con il medico Paolo Leombroni in un ufficio». Oltre il danno, poi, la beffa: «In serata mi è stato pure detto che la TAC era rotta» racconta Fabrizio, uno dei figli di Giuseppe Giuliano.

La denuncia sporta presso la Stazione dei Carabinieri di Spilinga

Nel dolore della perdita improvvisa subìta e nella consapevolezza di aver assistito a un caso di malasanità, la famiglia Giuliano il 15 settembre presenta una denuncia presso la Stazione dei Carabinieri di Spilinga per “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali”. «Ora che abbiamo fatto partire le denunce – racconta uno dei figli di Giuseppe, Fabrizio – molte persone che spesso non trovano la forza di sporgere denuncia o che vengono avvicinate e scoraggiate, mi hanno contattato riportandomi le situazioni al limite dell’umanità che hanno subito all’Ospedale di Vibo Valentia. Sappiamo per chi facciamo tutto questo: lo facciamo per lui, per noi, per i tanti che non hanno la forza e incassano con rassegnazione e frustrazione. Lo facciamo perché non riaccadano più episodi di sciatteria e di menefreghismo sanitario».

La lettera al presidente della Regione Occhiuto: “In Calabria la vita umana sacrificata sull’altare della negligenza e della sciatteria sanitaria”

Coraggio e motivazione hanno spinto Fabrizio a rivolgersi direttamente al governatore Roberto Occhiuto tramite una lettera aperta: “La tragedia della sanità in Calabria con Vibo Valentia a portare la bandiera – scrive il giovane – continua a essere un’oscura e incivile pagina della storia della nostra Regione. Al pari delle altre regioni d’Italia, il diritto ad essere curati dovrebbe essere garantito, purtroppo tutto ciò a Vibo Valentia non è scontato. Ci troviamo di fronte a una realtà in cui la vita umana sembra essere spesso ignorata. È un sistema marcio, corrotto dall’indifferenza, dall’inerzia e dal malaffare, dove il valore di una vita umana viene spesso sacrificato sull’altare della negligenza, del menefreghismo e della completa sciatteria sanitaria”.

“Sì, proprio così – prosegue Fabrizio Giuliano – “sciatteria sanitaria” perché ogni qual volta si ha bisogno di curarsi si ha l’impressione di percepire un mix di adrenalina e ansia al pari di una puntata alla roulette russa. In Calabria, la morte sembra essere diventata una statistica, un numero tra i tanti. Le persone soffrono e muoiono senza ricevere le cure di cui hanno bisogno, mentre chi dovrebbe proteggerle e curarle sembra voltare lo sguardo altrove. Il dolore delle famiglie, costrette a vedere i propri cari andarsene prematuramente, è amplificato dall’impotenza di fronte a un sistema che non funziona, un sistema appunto marcio da dentro”.

“Questo – continua Fabrizio Giulianoè un appello alla coscienza di tutti noi, ma soprattutto alla vostra, che siete i nostri rappresentanti, affinché si metta fine a questa indifferenza verso la sofferenza umana. Oggi a morire inerme per mano di un’equipe di lestofanti e negligenti è stato il mio caro papà, ma le prometto che non ci arrenderemo di fronte a niente e nessuno pur di arrivare a far chiarezza sulle responsabilità di ognuno. Ogni vita conta, e nessuno dovrebbe morire come se niente fosse, a causa di mercenari sanitari perché i medici, quelli animati da vocazione alla missione, sono ben altro”. La famiglia di Giuseppe Giuliano, vittima di un caso di malasanità, è attiva sui social con l’hashtag #GiustiziaPerGiuliano.

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Viaggio nell’inferno della criminalità giovanile

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Viaggio nell'inferno della criminalità minorile | Rec News dir. Zaira Bartucca

“La mia maggiore aspettativa è sposare un camorrista”. “Eravamo tutti insieme. Un mio amico portò una borsa piena di armi e tutti prendemmo una pistola”. Io vedevo loro sparare e così ho iniziato anch’io”. E’ un viaggio denso e a tratti agghiacciante quello che Giacomo Di Gennaro – ordinario di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale – e Maria Luisa Iavarone – ordinario di Pedagogia – compiono nel saggio “Ragazzi che sparano”, edito dalla casa editrice Franco Angeli.

Oltre duecento pagine in cui si scandaglia – dati alla mano – il tema della devianza giovanile grave, con le sue motivazioni, gli inneschi, la subcultura e tutto l’humus che l’ha fatta e la fa germogliare. Una ricerca, avvertono gli autori, che non è fine a sé stessa, ma che rappresenta il punto di partenza per trovare soluzioni al problema e per interloquire con i soggetti coinvolti: dalle Forze dell’Ordine alla Magistratura, da chi è deputato all’educazione e alla rieducazione a chi ha potere decisionale. Perché l’approccio consolidato, discontinuo e soppressivo, continua a mostrare limiti e debolezze, mentre a dover essere modificati – dicono i ricercatori – sono tutti quei fattori che portano i giovani a scegliere di essere criminali per poter, a conti fatti, permettere di avere uno status. Fosse anche quello di malvivente.

Ma perché si diventa criminali e perché in alcune zone e così facile che si inizi così presto? Iavarone e Di Gennaro rispondono alla domanda evidenziando le costanti dell’agire al di fuori della legalità. Due in particolare, che ricorrono nelle storie degli intervistati dell’IPM di Nisida: la condizione di indigenza e l’evasione scolastica. E’ su questa tabula di azzeramento sociale e intellettivo che le consorterie costruiscono il personaggio tipo utile al perseguimento di comportamenti criminosi che spaziano dai vari traffici all’uso di armi da fuoco, dalle cosiddette “stese” per far sfoggio della propria supremazia sul territorio agli annidamenti nella burocrazia. E’ pur vero che non tutti i poveri e non tutti quelli che non hanno studiato sposano determinati contesti: i due autori spiegano i motivi di questa dicotomia individuando e sondando altri fattori che nel giro di un quarantennio hanno portato al consolidamento della criminalità giovanile e finanche minorile.

Il volume di focalizza sul territorio napoletano raccontato dagli anni ’80 a oggi evidenziando due dati che forse possono stupire: l’ultimo sessennio ha visto un decremento di reati e non è la città partenopea ad avere il primato degli episodi attribuibili alla criminalità radicata tra le fasce di età più giovani, scalzata com’è da Bologna, Milano, Torino e Roma. Colpa del clima omertoso che impedisce di denunciare o merito di alcuni – rari e isolati – pm coraggiosi che distruggono altarini e demoliscono i miti cari ai clan, anche se la Camorra e le altre mafie alla lunga rimangono tutte lì. Perché cambia tutto ma non cambiano le condizioni che permettono al crimine di proliferare, anche se in maniera sempre più endemica, e di trasformarsi diventando quasi invisibile, normale, istituzionalizzato.

Certo, non ci sono bacchette magiche che permettono dall’oggi al domani di resettare tutto. Ma nel Paese che ha 5 milioni di poveri e un milione di minorenni che non hanno possibilità di studiare in maniera adeguata la prevenzione – osservano Di Gennaro e Iavarone – è l’arma che può permettere ai giovani di cambiare idea finché sono ancora in tempo e di capire che perseguire obiettivi leciti e costruirsi da soli, fosse anche con fatica, può permettere di vivere una vita più dignitosa. Lontana, a conti fatti, dai modelli distorti che si decantano in alcune fiction citate nel volume.

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La paghetta per i giornalisti che daranno “priorità alle questioni legate al clima”

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La paghetta per i giornalisti che daranno "priorità alle questioni legate al clima" | Rec News dir. Zaira Bartucca

Dopo i colpi inferti dal governo e dalla riforma Nordio alla Libertà di Espressione, un altro mal costume continua a minacciare l’autonomia di giornalisti e comunicatori. C’è chi tenta di silenziare quelli che fanno il loro lavoro a suon di querele temerarie e di campagne diffamatorie e chi, invece, vorrebbe ridurre i più manipolabili a meri burattini che ripetono a pappagallo gli slogan del politicamente corrotto in fatto di Sanità, di migranti, di Europa, di rapporti sociali. E di clima, ovviamente.

Su quest’ultimo terreno – squisitamente agendista – si concentrano ora le ansie del Centro europeo di Giornalismo, che periodicamente eroga delle paghette, sotto forma di premi, ai giornalisti che “si distinguono” in un determinato settore. Abbiamo già scritto dei finanziamenti da 7500 dollari da parte dello stesso ECJ e della fondazione Bill & Melinda Gates destinati a quei comunicatori che influenzano l’opinione pubblica in tema di Sanità.

Questa volta, invece, il premio – da 2000 euro ed erogato sempre dal Centro europeo di Giornalismo – è per coloro i quali daranno “priorità alla segnalazione di questioni legate al clima” in articoli o reportage pubblicati dal 14 al 17 giugno. Cosa significhi dare priorità non è dato saperlo, ma quel che è certo è che a dare man forte alle narrazioni costruite ci sarà anche Google News, il servizio della Big Tech già multata per propaganda e favoritismi, anche in Italia. In che modo e con quali toni, poi, i giornalisti parleranno e scriveranno di siccità, alluvioni e di “emergenze” climatiche (sapendo che ad attenderli ci sarà una ricompensa), c’è solo da immaginarselo.

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I rischi legati al consumo di insetti svelati dagli esperti. Le marche coinvolte e come riconoscere i preparati che li contengono

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I rischi legati al consumo di insetti svelati dagli esperti. Le marche coinvolte e come riconoscere i preparati che li contengono | Rec News dir. Zaira Bartucca

L’ingresso della farina di grilli nel mercato unico europeo ha suscitato un interesse crescente tra i consumatori. Tuttavia, i rischi legati al loro consumo alimentare non sono ancora stati sufficientemente esplorati. Secondo i suoi estimatori, la farina di grilli è ricca di proteine, minerali e vitamine, ma diverse preoccupazioni emergono quando si parla di introdurla nelle proprie abitudini alimentari. I principali rischi sono malattie dell’apparato gastrointestinale, allergie e intolleranze alimentari, già evidenziate dal nutrizionista e ricercatore Pietro Senette.

Il parere dell’esperto

“Il tallone d’Achille di questi preparati sta proprio in alcune delle loro proteine potenzialmente allergeniche. Al momento attuale come spesso succede le ricerche in materia sono quasi esclusivamente a firma dei produttori, un po’ come chiedere all’oste se è buono il vino che ci serve a tavola. Resta inoltre il nodo “chitina”, un polisaccaride contenuto negli insetti che oltre a non essere digeribile per il nostro apparato gastrointestinale è stato collegato da uno studio scientifico abbastanza recente a reazioni infiammatorie non proprio di poco conto. La mia raccomandazione – ha detto l’esperto a l’Unione Sarda – è che al di fuori del principio di precauzione che esige un’etichetta alimentare segnalatrice, si facciano comunque ulteriori studi da parte degli organi competenti in modo da far stare tutti più sereni».

Un rischio in più per gli allergici

Continuano infatti a essere assenti gli studi a lungo termine sull’impatto del consumo di farina di grilli sulla salute umana, mentre la comunità scientifica dà ormai per assodato che le persone con allergie alimentari possano essere colpite più seriamente da allergie agli insetti. Uno studio ha rilevato che la farina di grilli può aumentare la sensibilità del sistema immunitario a una serie di allergeni alimentari, inclusi il grano, la soia e il latte. Un altro rischio associato al consumo di farina di grilli è l’esposizione a sostanze chimiche dannose.

La presenza di metalli pesanti e la possibilità di incorrere in carenze nutrizionali

Alcuni grilli contengono tossine come arsenico, cadmio e piombo, che sono note per causare gravi danni alla salute. Inoltre è importante ricordare che, a causa della loro consistenza, i grilli possono essere più difficili da digerire rispetto ad altri alimenti. Ciò – dicono gli esperti – potrebbe causare problemi nell’assorbimento di nutrienti da parte dell’organismo, portando a carenze nutrizionali.

Un altro aspetto importante riguarda il diritto del consumatore a essere informato, soprattutto in un momento in cui manca un’etichettatura chiara e normata che faccia subito comprendere a chi acquista un prodotto che si rischia di mangiare degli insetti. Basterà la dicitura “polvere parzialmente sgrassata di Acheta domesticus” per far comprendere a tutti che si sta per mangiare degli insetti? Non serve, infatti, comprare un pacco di farina di grilli per trovarsela nello stomaco, perché questa può essere assunta tramite biscotti, gelati, salse, cracker, barrette e tutti i preparati a base di farina (pizza, pane, pasta, ecc.). In Italia l’azienda specializzata nella produzione di alimenti a base di insetti è Fucibo, mentre tra le importabili figurano la francese Agronutris e l’olandese Fair Insects B.V., che fa capo a Protix e ha ottenuto l’ok dalla Ue per la commercializzazione sia della farina proteica di grillo (Acheta domesticus) sia di grilli essiccati sia di locuste. 

L’Italia è anche il Paese che ospita una delle prime filiere in cui si alleva e sfrutta il grillo per scopi alimentari e commerciali. Se una volta i prodotti a base di farina erano tutti a base vegetale e provenienti dal grano altri cereali, oggi alcuni guardano a questi insetti indifesi come a un’alternativa alle farine ricavate dalla natura. Su questa idea è nata Alia Insect Farm, filiera che si propone di aumentare il consumo di massa di questi piccoli animaletti.

Cosa cambia con il Regolamento introdotto quest’anno dall’Unione europea

Dal 24 gennaio di quest’anno, inoltre, la società vietnamita Cricket One Co. Ltd è stata autorizzata a immettere sul mercato dell’Unione preparati che contengono grilli. E’ quanto precisa il Regolamento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Ue, che al contempo lascia spazio all’ipotesi che anche altre aziende possano richiedere – e ottenere- l’autorizzazione alla vendita di insetti per scopi cosiddetti alimentari.

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