
Giornalisti, è il momento di fare autocritica
Tempi duri per il giornalismo e per la libertà di informazione? Non più di quanto lo siano stati in passato. Quello che appare evidente è che per l’editoria e per l’esercizio della professione sono in cantiere diversi cambiamenti. Sarà il tempo (e l’approvazione della Riforma di settore) a stabilire se incisivi o meno. Tra gli animali feriti che si agitano e che temono l’estinzione, tuttavia, non ci sono né l’informazione in sé né il lavoro giornalistico. Piuttosto, ci sono le corporazioni (Odg, Fnsi e simili) che non vogliono adeguarsi ai cambiamenti e rinunciare al sistema di privilegi e c’è il fantasma delle testate che non sanno vivere senza i lauti e costosi finanziamenti che giungono dallo Stato.
Un clima assurdo alimentato da “sciacalli” – per citare il vicepremier Luigi Di Maio – che si sentono in odore di beatificazione. E allora un termine (forse motivato) diventa pretesto per intavolare discussioni fiume e farne, lontani da ogni criterio di notiziabilità, il fatto della settimana. I “giornalisti” reggi-microfono, quelli che estrapolano una parola da un senso compiuto per farne un senso proprio, insomma, non si sentono così. Poi però li vedi correre come mandrie inferocite per acchiappare il politico di turno, o addirittura intervistare una parete nell’attesa che qualcuno ci poggi le spalle sopra (nella foto, punto stampa per il ministro dell’Interno Salvini in occasione della presentazione del Calendario della Polizia di Stato).
D’altro canto, e di questo bisogna dare atto, le “mobilitazioni” di settore (come quella di questi giorni della Fnsi) vengono disertate proprio dagli stessi giornalisti. A quelli veri piace stare lontani dalle lobby che finirebbero solo per condizionare un lavoro che nei limiti del possibile deve rimanere imparziale. Fermo restando il diritto a esprimere un’opinione, che non dovrebbe essere negato in nessun caso tanto ai giornalisti quanto ai lettori, anche quando si tratta di temi delicati o controversi. Sono le stesse lobby interessate a conservare un sistema dei finanziamenti che si vuole mischiare a tutti i costi alla libertà di informazione e a quella dei cronisti. Entrambi, nei fatti, gravemente lese proprio dai milioni che ingrassano le testate principali impoverendo le casse statali.
Che si possa solo migliorare con l’abolizione dell’Ordine, con la fine dei finanziamenti per come sono stati fino a oggi concepiti, è più che un dato di fatto. La materia, tuttavia, non sembra trattabile con morbidezza, e questo il pacioso sottosegretario Crimi che ad ottobre aveva promesso lumi, dovrebbe saperlo. Il progetto di auto-riforma approvato dall’Odg, è quanto di più lontano da una riforma si possa immaginare. Quella vera dovrà contenere le linee guida di Crimi (non di chi è parte di quanto va riformato!), passare per il Parlamento e non per l’ufficio del presidente Odg Verna e infine contenere il sigillo del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’unico cui spetta il potere di scioglimento dei consigli.
OPINIONI
Quello di Mollicone in realtà è un assist ai sostenitori dell’utero in affitto. Se non peggio
La frase del presidente della commissione Cultura della Camera ed esponente di FdI ha scatenato aspre polemiche sia tra i sostenitori della mercificazione del corpo della donna e sia, di contro, in chi ci vede un qualcosa di assolutamente ambiguo e fuori luogo

“L’utero in affitto è un reato più grave della pedofilia”. Lo ha detto questa mattina il presidente della commissione Cultura della Camera ed esponente di FdI Federico Mollicone, ospite di Omnibus di La7. La frase ha scatenato aspre polemiche sia tra i sostenitori della mercificazione del corpo della donna e sia, di contro, in chi ci vede un qualcosa di assolutamente ambiguo e fuori luogo. Per quanto infatti Mollicone si sia affrettato a chiarire che lo sfruttamento di minori indifesi sia “un reato gravissimo”, rimane il mistero dell’utilità del paragone utilizzato.
Si può scomodare un reato che continua a mietere un sacco di vittime – con la compiacenza di tutti i governi che si succedono, compreso quello di Giorgia Meloni – e, in qualche modo, sdoganarlo e quasi scusarlo nell’ottica che ci sia qualcosa di “più grave”? Non sarebbe invece il caso che Fratelli d’Italia, oltre alla lecita battaglia sull’utero in affitto, cominciasse a dissociarsi da uscite assolutamente fuori luogo come quella di Mollicone e Nordio e iniziasse a rispondere a quella parte (tanta) dell’elettorato che anziché dichiarazioni ambigue chiede la punizione immediata di tutti i colpevoli di reati ai danni di bambini e minorenni? Perché fare una cosa non esclude l’altra, e bisognerebbe informare il presidente della Commissione Cultura che non ci sono reati migliori di altri.
Che poi dire una frase come quella pronunciata da Mollicone è come fare un clamoroso autogol, o meglio come dare un assist – cosa che in effetti ha fatto – ai sostenitori della pratica dell’utero in affitto. Messa così, l’ascoltatore medio chiamato a decidere quale reato sia più grave, è quasi tentato a provare più simpatia per la maternità surrogata se dall’altro lato della bilancia ci sono le violenze a danno di malcapitati minori. Insomma secondo gli ideatori di dichiarazioni di questo tipo – ovviamente riprese da tutta la stampa mainstream – il risultato in un modo o nell’altro è sempre garantito, se con risultato si intende il tentativo di normalizzare delle pratiche abominevoli e disumane, oltre che illegali.
OPINIONI
Tanto valeva tenersi Draghi. O Conte. O Letta

Tanto valeva tenersi Draghi, o Conte o Letta. Il Draghi bis in quei rocamboleschi mesi estivi che hanno portato alla formazione dell’attuale esecutivo era tutto nell’aria, e in effetti c’è stato: è il governo Meloni. Qual è la differenza tra la prima premier donna italiana e il “banchiere centrale senza cuore” (cit.)? Non la sudditanza verso l’Ue, non l’adesione al regime di controllo sovranazionale e non l’approccio a eventuali future – Dio ce ne scansi – emergenze sanitarie costruite a tavolino. Non la corsa agli armamenti e nemmeno la gestione dei migranti. Con i quali, al di là delle bagarre di facciata, le assonanze sono tutte verso il Pd di Letta e Schlein. Tanto che in queste ore il cognato di Giorgia Meloni, il ministro Francesco Lollobrigida, ha annunciato un “Piano” per far arrivare mezzo milione di migranti regolari.
Tanto aveva affermato a margine di un punto stampa prima che la segreteria di partito gli facesse notare che troppa sincerità in politica non va bene, e a quel punto le 500mila “regolarizzazioni” si sono trasformate in 500mila “richieste”. Lollobrigida ha fatto di più, affermando che la marea umana in Italia “dovrà trovare lavoro”, ne ha diritto, per carità, ma quello che continua a sfuggire è quel “dove” a cui nemmeno il governo Meloni ha saputo dare risposta. E’ di oggi la notizia delle proteste degli operai di Portovesme, fabbrica sarda di zinco e materiali non ferrosi che rischia di chiudere i battenti, lasciando a casa 1300 maestranze.
Si tratta di una delle ultime fabbriche italiane – se non l’ultima – che si dedica a questo tipo di produzione. E allora, al di là degli annunci, cosa è stato fatto per elevare i livelli occupazionali? Cosa si farà per frenare gli arrivi, visto che togliere il telecomando alle Ong per darlo al governo non basta a rendere il Paese vivibile per tutti quelli che ci sono e per quelli che arriveranno? Dove sono finite le battaglie per le famiglie e che fine hanno fatto quei minori abbandonati dalle Istituzioni di cui Meloni aveva parlato in fase di insediamento? Tra le pieghe delle larghissime intese, forse, tra una telefonata di incoraggiamento a Schlein e un’apparizione in prima serata di Bruno Vespa, manco fossimo tornati alle telefonate in diretta di Berlusconi. Tanto valeva…

Si può rendere onore solo a chi compie il proprio dovere, come quando si rende una cambiale a chi l’ha onorata perché ha fatto fronte agli impegni assunti. Mantenere una promessa, come pure agire secondo coscienza, significa compiere il proprio dovere senza che l’etica umana e la parola data vengano disattese. Il termine “onorevole”, riferito a un eletto, peraltro, non è mai stato istituito, dunque non esiste, è solo una cattiva abitudine che prese il via l’11 maggio del 1848, quando alla Camera subalpina fu letta una comunicazione del deputato Tola che iniziava con “Onorevoli deputati”. Forse allora si mantenevano le promesse elettorali.
Ed è proprio così. Assolutamente. Perché se tu prometti, per fare un esempio, che una volta eletto abolirai la caccia e poi non lo fai, avrai tradito il mio voto di animalista, non avrai compiuto il tuo dovere perché disonori la promessa, e avrai pure disatteso la coscienza, cioè l’etica, quella parte divina che è dentro di noi. Poco importa se non manterrai la parola data in maniera premeditata o meno, perché, per dirla nei modi di alcuni aulici ambienti sociali e filosofici, è prescritto: “Sventurato colui che accetta un incarico che non saprà portare a termine”.
Il termine Onorevole, oltretutto, è oggi fuorviante, ubriacante, perché chi è così appellato, perde di vista la realtà, è propenso a riempirsi di sé, e si convince di essere superiore agli altri cittadini a cui invece deve rendere devoto un servizio, sia perché lo hanno eletto, sia perché lo retribuiscono. È un problema di educazione che riguarda il progressivo scadimento valoriale della parola “onorevole”.
E il segreto dell’educazione è nella personalità dell’educatore, cioè dello Stato; ovverosia il segreto dipende dalla volontà degli uomini, che purtroppo sono stati emarginati in un quietismo politico, costretti come sono a decidere se mangiare o pagare le bollette.
OPINIONI
Il monologo di Chiara Francini è una brutta e tetra parodia del capolavoro di Oriana Fallaci

Nel 1975 la grande giornalista Oriana Fallaci scriveva un libro che ormai è un classico della contemporaneità. “Lettera a un bambino mai nato” è un libro diventato negli anni la pietra miliare dell’analisi introspettiva sulle donne che non sono madri, sul dramma dell’aborto, sulla famiglia e sui legami sentimentali. Un diario vero, convincente, doloroso e genuino che ha contribuito a dare spessore alla figura della nota editorialista e inviata di guerra.
Oggi, nel 2023, cosa avrebbe pensato la grande Oriana del monologo di Chiara Franchini presentato a Sanremo? Come avrebbe commentato – lei che ha sondato il tema per necessità e non per committenza politica – un soliloquio in cui si sente la forzatura di doversi appellare per forza all’universo lgbt (“Se sarai maschio io so e, quasi spero, che sarai gay”) arrivando a discriminare gli eterosessuali e perfino a insultare la vita appena nata con un discutibile “neonati mostruosi”?
Oriana che un figlio non lo ha mai avuto ma – dopo l’esperienza drammatica dell’aborto – lo ha desiderato più di prima, non si è mai sentita “una fallita” per non aver potuto generare altra Vita (forse perché aveva fatto tante altre cose importanti), né ha mai scritto parole di odio e di invidia verso chi questa fortuna l’ha avuta, e non per questo deve essere messo alla berlina in prima serata.
Ma tanto Sanremo ormai è solo questo, e dopo l’uscita infelice di Paola Egonu è anche il luogo dove si tenta di ridicolizzare le famiglie italiane: “Un esercito – per dirla alla Francini – di donne coi capelli corti e di maschi stempiati con la panza”, colpevole di volersi bene, di stare insieme felicemente e di aver voluto perpetuare un legame sentimentale con una nascita, che è la gioia più grande che può essere concessa a un uomo e a una donna che si amano.
Ma in quel di Sanremo non c’è spazio per valori come questi, per carità. Anzi. “Odia, odia, odia ciò che si deve odiare”, rimarca una Francini che appare, oltre che teatrale, tetra, “perché – continua l’attrice – è con quell’odio che si fanno le cose. Non è vero che si fa con l’amore. Sì, con l’amore si fanno delle cose, ma il grosso si fa con quell’odio lì. Profondo, viscerale, instancabile”.
Parole che Oriana Fallaci – pur nota per il suo carattere burbero e a volte solitario – non avrebbe di sicuro mai detto né scritto. Anzi, forse avrebbe fatto perfino una delle sue strigliate di testa epocali a certi ipocriti che un giorno lottano contro i discorsi d’odio e il bullismo, e il giorno dopo invitano ad odiare, come se l’essere disumani fosse ormai la cosa più naturale del mondo.
“Lettera a un bambino mai nato” – assieme a tutta l’esistenza della Fallaci – è stato invece un inno all’Amore e alla Vita, non una tirata a favore dell’abbruttimento morale e della denatalità. Un inno alla lotta per determinati valori che, in fondo, non è altro che una lotta per la gente, per persone che ci circondano e che – proprio come chi deve nascere – non conosciamo ancora, eppure siamo legati a a loro, in perfetto equilibrio, attraverso dinamiche insondabili.
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