
“Colpiti i giornalisti che rivelano verità scomode. Non permettere più ai diffamatori di restare anonimi”
Il presidente dell’Odg Carlo Bartoli: “Garantire la chiara riconoscibilità degli account dei social media, così da permettere l’assunzione delle proprie responsabilità”
In rete è tutto un fiorire (sfiorire, per meglio dire) di odiatori rigorosamente anonimi. Affollano i social nascondendosi dietro molteplici account per bacchettare chi ha opinioni e visioni politiche diverse dalle loro o, semplicemente, chi ha il brutto vizio di farsi delle domande. A volte si tratta di “schegge impazzite”, ma più spesso dietro l’anonimato di profili social e siti si nascondono veri e propri spin-doctor che sono parte di strutture manovrate da partiti e gruppi di pressione, che fanno affidamento sull’impunità che spesso gli viene garantita. La diffamazione e l’anonimato, insomma, messi insieme sono tutt’altro che casuali.
Una vera e propria deriva che sta causando problemi anche a giornalisti e comunicatori, che con il passaggio dalla carta al web sono sempre più a contatto con tematiche come il danno di immagine sul web, la diffamazione online e il risarcimento del danno professionale. Non solo: i diffusori di fake news e di allarmismi e gli autori di notizie manipolate e di contenuti di odio, tentano di inquinare anche l’informazione indipendente virtuosa, quella cioè orientata allo studio dei documenti e alla verifica delle fonti e della notizia. Si tratta di problemi annosi, è vero, ma nuovo è l’approccio al problema che sta avendo l’Ordine dei Giornalisti, da fine 2021 guidato da Carlo Bartoli.
Il nuovo presidente da mesi promette una riforma del settore dell’Editoria e dei criteri di accesso, ha avviato progetti di collaborazione con le Forze dell’Ordine ed è deciso a mettere un freno alla diffamazione come “carburante” delle grandi piattaforme. Solo il tempo potrà dire se si tratta di proclami o se, finalmente, il settore dell’informazione potrà portare a casa un miglioramento richiesto da più parti.
“Il contrasto alle fake news e alla disinformazione – ha detto Bartoli nel corso di un convegno che si è tenuto a Firenze – si ottiene garantendo trasparenza sull’identità dei profili e sulla corretta gestione dei meccanismi di diffusione delle notizie. L’odio, la diffamazione e la discriminazione sono il super carburante del traffico web e i social non devono prestarsi a questo gioco. Contenuti di disinformazione ce ne saranno sempre. Il problema centrale è impedire la loro moltiplicazione e diffusione. Se questo è uno dei motori del profitto delle grandi piattaforme internazionali, ce ne dispiace”.
“Colpiti anche i giornalisti, soprattutto quando portano alla luce verità scomode”
“La moltiplicazione dell’hate speech è in parte – ha detto ancora Bartoli nel corso del convegno su libertà d’espressione, comunicazione digitale e social media – un
risultato perseguito dalle grandi piattaforme e in parte un effetto collaterale. Del
resto è ben noto, oltre che esperienza quotidiana di tutti noi, il fatto che social e
motori di ricerca determinino la creazione di vere e proprie “bolle” al cui interno ci si
alimenta solo di ciò che l’algoritmo propone, in base ad una profilazione, come già
detto, sempre più invasiva. Bolle che rappresentano il brodo di coltura di
comportamenti aggressivi e linguaggi di odio, facile sfogatoio di tensioni sociali e
individuali”.
“Le ondate di odio in rete, soprattutto attraverso i social, non sempre sono il frutto
casuale di risposte emotive di massa”, ha puntualizzato ancora Bartoli. “Al contrario, molto spesso vengono “spinte” da agitatori del web, troll e simili, che con grande abilità hanno la capacità di influenzare e sollecitare gli istinti più bassi, indirizzandoli contro bersagli predefiniti o contro categorie di soggetti deboli e più vulnerabili. Immigrati, persone di colore, donne, disabili, ebrei; sono gli obiettivi preferiti dagli agitatori. Poi ci sono quelli che danno fastidio per la loro attività: tra cui anche i giornalisti, soprattutto quando portano alla luce verità scomode“.
“La garanzia dell’anonimato nel web non aiuta certo il contrasto del linguaggio d’odio. Inoltre l’anonimato viene spesso considerato come una sorta di “attenuante” in fase di giudizio nelle cause per diffamazione, e questo non è certo un fattore di deterrenza. Sarebbe piuttosto necessario garantire la chiara riconoscibilità degli account social media. L’assunzione delle proprie responsabilità così sarebbe garantita anche nelle attività digitali che sono ormai la principale dimensione nella quale si svolge la nostra vita, si assicurano i nostri redditi, si garantisce la nostra reputazione”.
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it
FREE SPEECH
La vicenda di Julian Assange approda alla Camera dei Deputati
La moglie Stella Morris: “Perseguitato perché ha fatto il suo dovere”

“Le persone non comprendono cosa significhi realmente la vicenda di Julian, la cui principale colpa è stata quella di fare luce su cosa accadeva realmente in Afghanistan e svelare la verità su crimini e corruzione da parte di esponenti dell’establishment degli Stati Uniti. E’ una vicenda che riguarda la libertà, non solo negli USA ma anche in Europa”. Così Stella Morris Assange, moglie di Julian, ha iniziato il suo intervento all’iniziativa “Il caso Assange e il diritto alla verità” che si è svolto ieri presso la Camera dei Deputati.
Oltre ai promotori, presente anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli. “Assange – è quanto ha ricordato – non è né una spia, come molti erroneamente hanno detto, né uno che ha comprato o trafugato documenti riservati mettendo a rischio, come sostengono gli americani, la vita di molte persone. Tutto questo è falso – ha spiegato Bartoli – perché Assange è solo un editore che ha divulgato dei documenti che era nell’interesse di tutti conoscere e che nel farlo ha messo al riparo tutte le persone coinvolte”.
Con l’ingiusta detenzione del fondatore di Wikileaks, ha proseguito il presidente dell’Odg, “si sta mettendo in discussione anche lo stesso Primo emendamento della Costituzione americana che difende la libertà di parola e di pensiero e questo è già di per sé paradossale. E l’ulteriore anomalia è che tutto questo avvenga negli Usa che è il Paese definito delle libertà”. Nel corso dell’intervento, il ringraziamento ai media – pochi – che “hanno accettato la sfida di non tacere. E’ una vera battaglia perché la democrazia non può né deve aver paura della Verità. Continueremo a chiedere che Assange venga liberato in nome della libertà di parola e di espressione e perché si tratta di una persona, un giornalista e un editore rinchiuso ingiustamente in un carcere di massima sicurezza senza processo”.

La moglie di Julian Assange, Stella Morris
Stella Moris, consorte di Assange: “Punito perché ha fatto bene il suo lavoro”
“Quello in cui un uomo che si è battuto per difendere le regole e i principi è in prigione, è un mondo alla rovescia”. Lo dice con rammarico la moglie di Julian Assange, Stella Morris, che nel corso del convegno che si è svolto a Montecitorio ha puntato il dito contro chi tiene recluso il marito infrangendo i diritti umani e contro chi ha tentato di far calare una cappa di silenzio sul suo caso. “C’è stato un abuso del processo legale per fare di lui un caso e mandare un segnale a chi vorrebbe fare le stesse cose: ossia denunciare i crimini di guerra più terribili e l’impunità di chi li ha commessi”.
“Julian – ha proseguito Stella Morris Assange – ha pubblicato solo la verità sui crimini commessi dagli Stati e sugli insabbiamenti che ne sono seguiti. Ora è un uomo tenuto in un carcere di massima sicurezza insieme ai peggiori criminali. Quelli che vogliono Julian in carcere non credono nella democrazia né nei diritti umani. Il dovere dell’Europa è mobilitarsi in sua difesa perché questo ha ripercussioni su ognuno di voi”.
“Tutti sono d’accordo – ha detto ancora la moglie di Assange – nel ritenere che Julian viene accusato solo di aver fatto il giornalista. Il Regno Unito sta dicendo che i giornalisti devono tenere segreti i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti, ma Julian aveva il dovere come giornalista e l’obbligo come persona di rendere tutto di pubblico dominio. Il caso di Julian è di così alto profilo che crea una nuova realtà, una realtà in cui si possono perseguitare le persone solo perché fanno il loro dovere”.
FREE SPEECH
“No a nuove leggi per limitare il diritto dei cittadini ad essere informati”

Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, riunito nella seduta del 25 gennaio 2023, ha espresso preoccupazione per l’intenzione di varare una norma che avrebbe l’effetto di limitare fortemente la libertà di stampa e il diritto dei cittadini ad essere informati su indagini penali di rilievo e interesse pubblico.
L’annunciata “stretta” sulle intercettazioni, con la previsione di pesanti sanzioni per i giornalisti – fanno sapere dall’organismo – è in contrasto con la giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto/dovere dei giornalisti di fornire alla collettività le notizie di interesse pubblico, soprattutto quando riguardano politici e amministratori, “anche pubblicando le intercettazioni e perfino utilizzando informazioni coperte da segreto”, dicono dall’Odg. E si pone in contraddizione con l’European Media Freedom Act che l’Unione Europea si appresta a varare per salvaguardare il lavoro dei giornalisti e la libertà di stampa, ritenuti di importanza essenziale per la democrazia.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha invitato a non dare corso ad una riforma che “avrebbe l’effetto di privare i cittadini di un’informazione essenziale al fine di formare un’opinione pubblica consapevole e di limitare fortemente la libertà d’informazione, già compressa dopo l’entrata in vigore del decreto 188/2021”.
“I giornalisti sono da sempre sensibili di fronte al tema del rispetto della dignità della persona, che include il diritto alla presunzione d’innocenza e il diritto all’oblio: l’Ordine dei giornalisti deve essere messo nelle condizioni di poter intervenire con tempestività per sanzionare le eventuali violazioni. Si chiede pertanto a Governo e Parlamento di impegnarsi per riformare, dopo 60 anni, la legge professionale dei giornalisti per renderla adeguata alle epocali trasformazioni del mondo dell’informazione introdotte dalle più moderne tecnologie in continua evoluzione digitale e multimediale”, concludono dall’Odg.
FREE SPEECH
Il collettivo di giornalisti per la liberazione di Assange compie tre anni
Nel 2019, il trasporto coatto di Assange dall’Ambasciata dell’Ecuador ha fatto mobilitare tutta la società civile, di tutti i Paesi del Mondo. Ad arrivare troppo tardi sono stati, come sempre, i media mainstream, che anziché denunciare subito la violazione dei diritti umani hanno tentato di costruire un’immagine distorta e inesistente del giornalista. Ma a fianco di queste azioni che si caratterizzano da sole, iniziava a prendere forma un’esperienza virtuosa: quella di un collettivo di giornalisti che si è battuto e si batte per la liberazione incondizionata di un collega che ha apportato un contributo risolutivo al mondo dell’informazione

Julian Assange, giornalista pluripremiato e fondatore di Wikileaks, è detenuto in un carcere britannico da quasi quattro anni. La sua colpa è di aver fatto conoscere al mondo la verità su numerosi crimini di guerra e sul malaffare che gira intorno a certe organizzazioni, a certa politica e a certi partiti. Per Assange, che ha svelato i punti deboli dei clintoniani e dei democratici americani, oggi non esiste nessuna grazia che provenga dal presidente americano, sebbene alcuni per la sua liberazione facessero affidamento – errando – nel ricambio alla Casa Bianca. Il problema non era – evidentemente – Trump, perché negli Stati Uniti di Biden si graziano tacchini ma non uomini che con il loro lavoro hanno tentato di aiutare la collettività a liberarsi dalle catene che la tengono imbrigliata.
Nel 2019 il trasporto coatto di Assange dall’Ambasciata dell’Ecuador ha fatto mobilitare tutta la società civile, di tutti i Paesi del Mondo. Ad arrivare troppo tardi sono stati, come sempre, i media mainstream, che anziché denunciare subito la violazione dei diritti umani in corso hanno tentato di costruire un’immagine distorta e inesistente del giornalista. Ma a fianco di queste azioni che si caratterizzano da sole, iniziava a prendere forma un’esperienza virtuosa: quella di un collettivo di giornalisti che si è battuto e si batte per la liberazione incondizionata di un collega che ha apportato un contributo risolutivo al mondo dell’informazione. Quel collettivo si chiama “Speak Up for Assange”, e quest’anno compie tre anni.
In un triennio questa realtà è riuscita a mettere insieme oltre duemila giornalisti provenienti da tutto il mondo (tra loro, anche la fondatrice di Rec News) e da tantissime redazioni che chiedono la liberazione di Julian Assange e la fine di ogni violazione dei suoi diritti inalienabili. Questo il comunicato che è stato diffuso in occasione dell’anniversario del collettivo.
Cari amici e colleghi, esattamente tre anni fa, dopo la preoccupazione che i giornalisti non prestassero abbastanza attenzione al caso di Julian Assange, è nata l’iniziativa #Journalistspeakupforassange. Da piccoli inizi, è cresciuto fino a oltre 2.100 nomi in tre anni.
Dopo aver lanciato la dichiarazione dei giornalisti internazionali nel 2019, è stato trasformato in un video di successo su YouTube e Twitter l’anno successivo. Da allora, mentre aggiornavamo i firmatari con notizie e risorse sul caso legale in corso, abbiamo organizzato annunci sui giornali che pubblicizzavano il nostro disaccordo collettivo all’accusa, oltre a inviare una lettera di opposizione insieme a una copia della nostra lista dei firmatari all’ex ministro degli interni del Regno Unito Priti Patel prima della sua decisione sull’estradizione.
Riteniamo che collettivamente abbiamo contribuito a spostare l’ago della bilancia nel rendere accettabile che altri giornalisti esprimessero pubblicamente la loro difesa di Assange. Anche se può avere i suoi difetti, la lettera congiunta della scorsa settimana di alcune testate è stata un’ammissione attesa da tempo. E ‘ un passo nella giusta direzione.
Inoltre, c’è stato l’importante sviluppo che Assange e il suo team hanno presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel frattempo, anche se una data deve ancora essere confermata, l’appello di Assange nel Regno Unito dovrebbe iniziare all’inizio del nuovo anno. Incoraggiamo sempre a continuare a indagare, scrutare e porre l’attenzione pubblica sul caso Assange.
FREE SPEECH
Perché diffidare delle donazioni ai siti e del giornalismo a gettone
I motivi per cui molte testate cercano denaro facile e affiancano alla pubblicità e agli abbonamenti richieste insistenti e incessanti di soldi. Spesso il lettore inconsapevole si trova in realtà a finanziare nuovi partiti, attività di propaganda elettorale, gruppi di pressione e altri soggetti

Da decenni si dibatte sui danni causati al settore dell’informazione dalla proliferazione dei fondi per l’Editoria. I temi sono tra i più svariati: con che criteri vengono assegnati? Ricevere finanziamenti non pone le testate in una condizione di sudditanza che finisce con l’impattare sull’imparzialità del lavoro svolto? Si tratta di un problema mai superato, che avrà soluzione solo con il taglio netto di questo tipo di contributi che ormai non provengono solo dal governo e dalle sue Task force, ma anche dall’Ue, dalle big tech, dalle big pharma e da presunti filantropi, dalle multinazionali.
In teoria le piccole testate digitali (quelle che non hanno un quotidiano cartaceo ad ampia distribuzione collegato, per intenderci) dovrebbe essere al riparo da queste infiltrazioni, ma non è così. Anzitutto perché molti siti sono finanziati direttamente da partiti vecchi e nuovi, senza che ci sia – allo stato – alcun obbligo di indicare in gerenza il loro legame con la politica. Il che è un bel problema: il lettore inconsapevole si trova spesso su siti che si dicono “indipendenti” o che fanno gli gnorri con frasi tipo “non siamo una testata giornalistica”, “siamo solo un blog” o “non abbiamo padrini né padroni” per poi trovarsi di fronte a un prodotto che è diretta e calcolata emanazione di gruppi di pressione, di think-thank e di piattaforme finanziatrici.
“Racket” editoriale
La situazione peggiora quando questi siti – compresi quelli mainstream – si prestano a una sorta di racket editoriale portato avanti tramite la richiesta insistente e incessante di donazioni. C’è chi chiede di essere pagato in nome della “libertà” e chi per far fronte a “costi crescenti”. Ci sono quelli che “non vogliamo chiudere” e quelli che “siamo gli unici a regalarti il nostro giornalismo indipendente”. Frasi roboanti e slogan da imbonitori che hanno lo stesso obiettivo: convincere i lettori a mettere mano al portafogli. Farli “donare” a tutti i costi mentre nel quotidiano combattono contro il carovita, l’aumento delle bollette e, in molti casi, la disoccupazione. Esistono anche i casi limite, quelli cioè in cui di adesione da parte della gente reale ce n’è ben poca, ma tanto è il lavoro per costruire un’infrastruttura in grado di far passare l’idea – null’altro – del finanziamento “dal basso”, mentre a donare sono appartenenti a gruppi di pressione e, dunque, a vere e proprie lobby alternative.
Il culmine arriva nei casi in cui ci si richiama alla Verità, all’obiettività, all’oggettività dei fatti e all’indipendenza per giustificare la richiesta di denaro: pecunia non olet, dicevano i romani, ma un po’ di olezzo quando si mischiano valori alti a commerci da mercanti nel tempo, si inizia a sentire. Non parliamo dell’ultima tendenza, cioè l’idea di obbligare il lettore a scegliere tra l’obbigo di cookie e l’obbligo di abbonamento, su cui ha già sollevato delle perplessità il Garante per la Privacy.
Se le donazioni servono a finanziare nuovi partiti e attività di propaganda elettorale
Qualcuno potrà obiettare che questa situazione è causata dalla crisi dell’editoria e della precarietà che affligge molti comunicatori e colleghi. In parte è vero, ma che succede se il giornalista chiamato a essere obiettivo e ricettivo, subordina la propria attività alla ricezione o meno di una donazione, ovvero di una cifra in denaro? Che si verifica lo spettacolo indecoroso a cui molti stanno assistendo in questi giorni di campagna elettorale: giornalisti “a gettone” che si prestano a questo o a quel partito in base ai foraggiamenti ottenuti, o che – al contrario – si rifiutano di coprire determinati eventi o di fare un’intervista se prima non gli si dà una rinfrescata al (già gonfio) conto corrente. Si tratta di siti che spesso gestiscono flussi di denaro da centinaia di migliaia di euro, completamente al riparo dal Fisco perché si tratta, ufficialmente, di “donazioni”.
Per le Elezioni Politiche del 25 settembre, poi, molti comunicatori stanno rivelando il loro vero volto, con il supporto diretto di determinati soggetti politici per conquistarsi un seggio in Parlamento e il conseguente inganno svelato: le donazioni non servivano a finanziare testate che si auto-dichiaravano indipendenti, ma a perseguire obiettivi politici e finanziare attività di propaganda elettorale.
Il vero giornalista è come il buon medico
Niente di più lontano, insomma, dal lavoro di giornalista. Che può – chiaramente – candidarsi e fare politica, ma ha il dovere di comunicare con chiarezza e senza sotterfugi la sua aspirazione. Molte volte pubblicamente ci è capitato di ricordare che questa professione non è diversa da quello del medico. Un dottore, fosse anche uno specialista privato, non può rifiutarsi di curare una persona o di offrire assistenza a chi ne ha bisogno, perché dal suo lavoro dipende la preservazione della salute degli individui e in alcuni casi la loro vita, un bene supremo che va sempre tutelato. Allo stesso modo il vero giornalista non può tapparsi occhi, orecchie e bocca perché non è arrivato il bonifico o la donazione è in ritardo.
Indipendenza per un giornalista significa anche e soprattutto non avere nessun legame diretto con le proprie fonti di finanziamento e non subordinare la propria linea editoriale agli incassi, siano essi provenienti da soggetti pubblici o privati: chi pretende “donazioni” da un’intervistato o da chi cura una rubrica, non è indipendente. Chi minaccia di chiudere un sito in risposta al ritardo di una donazione, non è indipendente e non è la persona giusta per lotte politiche di ampio respiro, perché tradisce obiettivi diversi da quelli che professa.
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it
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