
L’ingiusta sorte di Assange. Ora è nel carcere di Belmarsh. Ecco cosa rischia
Il fondatore di Wikileaks nella prigione che “ospita” terroristi, colpevoli di crimini efferati e serial killer. Il 2 maggio l’udienza, cui parteciperà via video
Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, è stato arrestato lo scorso 11 aprile. Il presidente dell’Ecuador Lenin Moreno ha revocato l’asilo politico che era stato disposto dall’ex presidente Rafael Correa. La decisione è stata duramente criticata dalla consulente generale per i Diritti Umani Dinah Pokempner, che ha evidenziato le “condizioni di detenzione” cui il giornalista è stato sottoposto per quasi sette anni e il “confinamento solitario” che ha dovuto subire.

La “colpa” di Assange, è aver denunciato crimini di guerra come quelli perpetrati in Iraq decriptando e rendendo noti video come “Collateral murders“, o aver scoperchiato la corruzione dei democratici americani e il sistema di finanziamento della fondazione di Hillary Clinton, foraggiato niente meno che dai terroristi dell’Isis, come ha ricordato puntualmente John Pilger.

In queste ore Wikileaks sta incassando il sostegno di diversi organismi (sopra): a latitare è invece quello che doveva essere scontato dei “colleghi” giornalisti. L’Italia ha già prenotato le sue cattive figure se la si mette dal punto di vista dell’anteporre l’intrattenimento scandalistico alla cronaca. Il Giornale, La Stampa, Business Insider Italia e la pagata dai contribuenti RaiNews24 (se ritenete potete segnalarci gli altri che ci sono sfuggiti) si sono affrettati a riprendere il video della CNN in cui Assange cerca di tenersi impegnato girando con lo skate in qualche metro quadro come può fare un criceto che non ha altro nella gabbia se non la sua ruota.

Più che scandalizzare, il video infatti non fa che denunciare la condizione limite cui è stato sottoposto Assange, che per sette lunghi anni non ha visto la luce del sole ma è stato illuminato dalla sola lampada artificiale che gli è stata regalata dagli amici, non ha potuto godere di spazi aperti, ed è stato lontano da tutti i suoi affetti, figli piccoli compresi. “E’ un’esperienza difficile, sono isolato dalla maggior parte delle persone, anche dai miei bambini. Questa esperienza ha interferito con il mio lavoro e con i principi per cui ho combattuto tutta la vita, come la libertà di espressione e il diritto delle persone di sapere“.

Per assurdo, proprio la lotta di Assange e la sua risolutezza a informare la gente pur esponendosi a seri rischi, sono alla base delle scelte di quattro governi (Australia, Usa, Gran Bretagna ed Ecuador). Anziché essere protetto, Assange è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, definito “la Guantanamo della Gran Bretagna”. Nel 2017 un detenuto testimonia che si tratta di una sorta di “campo di addestramento per jihadisti, in cui sono rinchiusi terroristi colpevoli dell’omicidio di massa organizzato dell’11 settembre, colpevoli di crimini efferati e serial killer.

I detenuti di Belmarsh, riporta Elisabetta Vos di consortiumnews.com, “sono confinati nelle loro celle per 22 ore al giorno. I loro avvocati dicono che sono sepolti nel cemento“. “Il sistema carcerario – ha confessato un uomo – è gestito in modo da umiliare e degradare il detenuto, per quanto possibile. Il processo di disumanizzazione inizia immediatamente.”. La prima esperienza cui è stato costretto Assange nel 2010, quando è stato detenuto a Wandsworth, era del resto stata già destabilizzante.

“Gli sono stati somministrati – racconta Vos – alimenti contenenti pezzi di metallo, che gli hanno danneggiato i denti e causato lesioni gravi che non sono state curate nel corso dei sei anni e mezzo di confino presso l’ambasciata dell’Ecuador” (la relazione medica del dentista che lo ha visitato è stata pubblicata da Wikileaks). Assange non ha ricevuto i trattamenti sanitari necessari, come evidenziato dal medico Sean Love. Stando a quanto diramato l’altro ieri dai medici Brock Chisholm e Sondra Crosby, il fondatore di Wikileaks rischia di contrarre malattie da carenza di vitamina D per la mancata esposizione al sole, compreso il cancro. E’, inoltre, un individuo “a rischio suicidio” cui lo espone la “sovrapproduzione di adrenalina per la paura di essere estradato negli Stati Uniti”.
Il prossimo 2 maggio avrà luogo l’udienza, cui Assange parteciperà via video. Il prossimo 12 giugno sarà invece esaminata la richiesta di estradizione negli Usa.
FREE SPEECH
La vicenda di Julian Assange approda alla Camera dei Deputati
La moglie Stella Morris: “Perseguitato perché ha fatto il suo dovere”

“Le persone non comprendono cosa significhi realmente la vicenda di Julian, la cui principale colpa è stata quella di fare luce su cosa accadeva realmente in Afghanistan e svelare la verità su crimini e corruzione da parte di esponenti dell’establishment degli Stati Uniti. E’ una vicenda che riguarda la libertà, non solo negli USA ma anche in Europa”. Così Stella Morris Assange, moglie di Julian, ha iniziato il suo intervento all’iniziativa “Il caso Assange e il diritto alla verità” che si è svolto ieri presso la Camera dei Deputati.
Oltre ai promotori, presente anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli. “Assange – è quanto ha ricordato – non è né una spia, come molti erroneamente hanno detto, né uno che ha comprato o trafugato documenti riservati mettendo a rischio, come sostengono gli americani, la vita di molte persone. Tutto questo è falso – ha spiegato Bartoli – perché Assange è solo un editore che ha divulgato dei documenti che era nell’interesse di tutti conoscere e che nel farlo ha messo al riparo tutte le persone coinvolte”.
Con l’ingiusta detenzione del fondatore di Wikileaks, ha proseguito il presidente dell’Odg, “si sta mettendo in discussione anche lo stesso Primo emendamento della Costituzione americana che difende la libertà di parola e di pensiero e questo è già di per sé paradossale. E l’ulteriore anomalia è che tutto questo avvenga negli Usa che è il Paese definito delle libertà”. Nel corso dell’intervento, il ringraziamento ai media – pochi – che “hanno accettato la sfida di non tacere. E’ una vera battaglia perché la democrazia non può né deve aver paura della Verità. Continueremo a chiedere che Assange venga liberato in nome della libertà di parola e di espressione e perché si tratta di una persona, un giornalista e un editore rinchiuso ingiustamente in un carcere di massima sicurezza senza processo”.

La moglie di Julian Assange, Stella Morris
Stella Moris, consorte di Assange: “Punito perché ha fatto bene il suo lavoro”
“Quello in cui un uomo che si è battuto per difendere le regole e i principi è in prigione, è un mondo alla rovescia”. Lo dice con rammarico la moglie di Julian Assange, Stella Morris, che nel corso del convegno che si è svolto a Montecitorio ha puntato il dito contro chi tiene recluso il marito infrangendo i diritti umani e contro chi ha tentato di far calare una cappa di silenzio sul suo caso. “C’è stato un abuso del processo legale per fare di lui un caso e mandare un segnale a chi vorrebbe fare le stesse cose: ossia denunciare i crimini di guerra più terribili e l’impunità di chi li ha commessi”.
“Julian – ha proseguito Stella Morris Assange – ha pubblicato solo la verità sui crimini commessi dagli Stati e sugli insabbiamenti che ne sono seguiti. Ora è un uomo tenuto in un carcere di massima sicurezza insieme ai peggiori criminali. Quelli che vogliono Julian in carcere non credono nella democrazia né nei diritti umani. Il dovere dell’Europa è mobilitarsi in sua difesa perché questo ha ripercussioni su ognuno di voi”.
“Tutti sono d’accordo – ha detto ancora la moglie di Assange – nel ritenere che Julian viene accusato solo di aver fatto il giornalista. Il Regno Unito sta dicendo che i giornalisti devono tenere segreti i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti, ma Julian aveva il dovere come giornalista e l’obbligo come persona di rendere tutto di pubblico dominio. Il caso di Julian è di così alto profilo che crea una nuova realtà, una realtà in cui si possono perseguitare le persone solo perché fanno il loro dovere”.
FREE SPEECH
“No a nuove leggi per limitare il diritto dei cittadini ad essere informati”

Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, riunito nella seduta del 25 gennaio 2023, ha espresso preoccupazione per l’intenzione di varare una norma che avrebbe l’effetto di limitare fortemente la libertà di stampa e il diritto dei cittadini ad essere informati su indagini penali di rilievo e interesse pubblico.
L’annunciata “stretta” sulle intercettazioni, con la previsione di pesanti sanzioni per i giornalisti – fanno sapere dall’organismo – è in contrasto con la giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto/dovere dei giornalisti di fornire alla collettività le notizie di interesse pubblico, soprattutto quando riguardano politici e amministratori, “anche pubblicando le intercettazioni e perfino utilizzando informazioni coperte da segreto”, dicono dall’Odg. E si pone in contraddizione con l’European Media Freedom Act che l’Unione Europea si appresta a varare per salvaguardare il lavoro dei giornalisti e la libertà di stampa, ritenuti di importanza essenziale per la democrazia.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha invitato a non dare corso ad una riforma che “avrebbe l’effetto di privare i cittadini di un’informazione essenziale al fine di formare un’opinione pubblica consapevole e di limitare fortemente la libertà d’informazione, già compressa dopo l’entrata in vigore del decreto 188/2021”.
“I giornalisti sono da sempre sensibili di fronte al tema del rispetto della dignità della persona, che include il diritto alla presunzione d’innocenza e il diritto all’oblio: l’Ordine dei giornalisti deve essere messo nelle condizioni di poter intervenire con tempestività per sanzionare le eventuali violazioni. Si chiede pertanto a Governo e Parlamento di impegnarsi per riformare, dopo 60 anni, la legge professionale dei giornalisti per renderla adeguata alle epocali trasformazioni del mondo dell’informazione introdotte dalle più moderne tecnologie in continua evoluzione digitale e multimediale”, concludono dall’Odg.
FREE SPEECH
Il collettivo di giornalisti per la liberazione di Assange compie tre anni
Nel 2019, il trasporto coatto di Assange dall’Ambasciata dell’Ecuador ha fatto mobilitare tutta la società civile, di tutti i Paesi del Mondo. Ad arrivare troppo tardi sono stati, come sempre, i media mainstream, che anziché denunciare subito la violazione dei diritti umani hanno tentato di costruire un’immagine distorta e inesistente del giornalista. Ma a fianco di queste azioni che si caratterizzano da sole, iniziava a prendere forma un’esperienza virtuosa: quella di un collettivo di giornalisti che si è battuto e si batte per la liberazione incondizionata di un collega che ha apportato un contributo risolutivo al mondo dell’informazione

Julian Assange, giornalista pluripremiato e fondatore di Wikileaks, è detenuto in un carcere britannico da quasi quattro anni. La sua colpa è di aver fatto conoscere al mondo la verità su numerosi crimini di guerra e sul malaffare che gira intorno a certe organizzazioni, a certa politica e a certi partiti. Per Assange, che ha svelato i punti deboli dei clintoniani e dei democratici americani, oggi non esiste nessuna grazia che provenga dal presidente americano, sebbene alcuni per la sua liberazione facessero affidamento – errando – nel ricambio alla Casa Bianca. Il problema non era – evidentemente – Trump, perché negli Stati Uniti di Biden si graziano tacchini ma non uomini che con il loro lavoro hanno tentato di aiutare la collettività a liberarsi dalle catene che la tengono imbrigliata.
Nel 2019 il trasporto coatto di Assange dall’Ambasciata dell’Ecuador ha fatto mobilitare tutta la società civile, di tutti i Paesi del Mondo. Ad arrivare troppo tardi sono stati, come sempre, i media mainstream, che anziché denunciare subito la violazione dei diritti umani in corso hanno tentato di costruire un’immagine distorta e inesistente del giornalista. Ma a fianco di queste azioni che si caratterizzano da sole, iniziava a prendere forma un’esperienza virtuosa: quella di un collettivo di giornalisti che si è battuto e si batte per la liberazione incondizionata di un collega che ha apportato un contributo risolutivo al mondo dell’informazione. Quel collettivo si chiama “Speak Up for Assange”, e quest’anno compie tre anni.
In un triennio questa realtà è riuscita a mettere insieme oltre duemila giornalisti provenienti da tutto il mondo (tra loro, anche la fondatrice di Rec News) e da tantissime redazioni che chiedono la liberazione di Julian Assange e la fine di ogni violazione dei suoi diritti inalienabili. Questo il comunicato che è stato diffuso in occasione dell’anniversario del collettivo.
Cari amici e colleghi, esattamente tre anni fa, dopo la preoccupazione che i giornalisti non prestassero abbastanza attenzione al caso di Julian Assange, è nata l’iniziativa #Journalistspeakupforassange. Da piccoli inizi, è cresciuto fino a oltre 2.100 nomi in tre anni.
Dopo aver lanciato la dichiarazione dei giornalisti internazionali nel 2019, è stato trasformato in un video di successo su YouTube e Twitter l’anno successivo. Da allora, mentre aggiornavamo i firmatari con notizie e risorse sul caso legale in corso, abbiamo organizzato annunci sui giornali che pubblicizzavano il nostro disaccordo collettivo all’accusa, oltre a inviare una lettera di opposizione insieme a una copia della nostra lista dei firmatari all’ex ministro degli interni del Regno Unito Priti Patel prima della sua decisione sull’estradizione.
Riteniamo che collettivamente abbiamo contribuito a spostare l’ago della bilancia nel rendere accettabile che altri giornalisti esprimessero pubblicamente la loro difesa di Assange. Anche se può avere i suoi difetti, la lettera congiunta della scorsa settimana di alcune testate è stata un’ammissione attesa da tempo. E ‘ un passo nella giusta direzione.
Inoltre, c’è stato l’importante sviluppo che Assange e il suo team hanno presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel frattempo, anche se una data deve ancora essere confermata, l’appello di Assange nel Regno Unito dovrebbe iniziare all’inizio del nuovo anno. Incoraggiamo sempre a continuare a indagare, scrutare e porre l’attenzione pubblica sul caso Assange.
FREE SPEECH
“Colpiti i giornalisti che rivelano verità scomode. Non permettere più ai diffamatori di restare anonimi”
Il presidente dell’Odg Carlo Bartoli: “Garantire la chiara riconoscibilità degli account dei social media, così da permettere l’assunzione delle proprie responsabilità”

In rete è tutto un fiorire (sfiorire, per meglio dire) di odiatori rigorosamente anonimi. Affollano i social nascondendosi dietro molteplici account per bacchettare chi ha opinioni e visioni politiche diverse dalle loro o, semplicemente, chi ha il brutto vizio di farsi delle domande. A volte si tratta di “schegge impazzite”, ma più spesso dietro l’anonimato di profili social e siti si nascondono veri e propri spin-doctor che sono parte di strutture manovrate da partiti e gruppi di pressione, che fanno affidamento sull’impunità che spesso gli viene garantita. La diffamazione e l’anonimato, insomma, messi insieme sono tutt’altro che casuali.
Una vera e propria deriva che sta causando problemi anche a giornalisti e comunicatori, che con il passaggio dalla carta al web sono sempre più a contatto con tematiche come il danno di immagine sul web, la diffamazione online e il risarcimento del danno professionale. Non solo: i diffusori di fake news e di allarmismi e gli autori di notizie manipolate e di contenuti di odio, tentano di inquinare anche l’informazione indipendente virtuosa, quella cioè orientata allo studio dei documenti e alla verifica delle fonti e della notizia. Si tratta di problemi annosi, è vero, ma nuovo è l’approccio al problema che sta avendo l’Ordine dei Giornalisti, da fine 2021 guidato da Carlo Bartoli.
Il nuovo presidente da mesi promette una riforma del settore dell’Editoria e dei criteri di accesso, ha avviato progetti di collaborazione con le Forze dell’Ordine ed è deciso a mettere un freno alla diffamazione come “carburante” delle grandi piattaforme. Solo il tempo potrà dire se si tratta di proclami o se, finalmente, il settore dell’informazione potrà portare a casa un miglioramento richiesto da più parti.
“Il contrasto alle fake news e alla disinformazione – ha detto Bartoli nel corso di un convegno che si è tenuto a Firenze – si ottiene garantendo trasparenza sull’identità dei profili e sulla corretta gestione dei meccanismi di diffusione delle notizie. L’odio, la diffamazione e la discriminazione sono il super carburante del traffico web e i social non devono prestarsi a questo gioco. Contenuti di disinformazione ce ne saranno sempre. Il problema centrale è impedire la loro moltiplicazione e diffusione. Se questo è uno dei motori del profitto delle grandi piattaforme internazionali, ce ne dispiace”.
“Colpiti anche i giornalisti, soprattutto quando portano alla luce verità scomode”
“La moltiplicazione dell’hate speech è in parte – ha detto ancora Bartoli nel corso del convegno su libertà d’espressione, comunicazione digitale e social media – un
risultato perseguito dalle grandi piattaforme e in parte un effetto collaterale. Del
resto è ben noto, oltre che esperienza quotidiana di tutti noi, il fatto che social e
motori di ricerca determinino la creazione di vere e proprie “bolle” al cui interno ci si
alimenta solo di ciò che l’algoritmo propone, in base ad una profilazione, come già
detto, sempre più invasiva. Bolle che rappresentano il brodo di coltura di
comportamenti aggressivi e linguaggi di odio, facile sfogatoio di tensioni sociali e
individuali”.
“Le ondate di odio in rete, soprattutto attraverso i social, non sempre sono il frutto
casuale di risposte emotive di massa”, ha puntualizzato ancora Bartoli. “Al contrario, molto spesso vengono “spinte” da agitatori del web, troll e simili, che con grande abilità hanno la capacità di influenzare e sollecitare gli istinti più bassi, indirizzandoli contro bersagli predefiniti o contro categorie di soggetti deboli e più vulnerabili. Immigrati, persone di colore, donne, disabili, ebrei; sono gli obiettivi preferiti dagli agitatori. Poi ci sono quelli che danno fastidio per la loro attività: tra cui anche i giornalisti, soprattutto quando portano alla luce verità scomode“.
“La garanzia dell’anonimato nel web non aiuta certo il contrasto del linguaggio d’odio. Inoltre l’anonimato viene spesso considerato come una sorta di “attenuante” in fase di giudizio nelle cause per diffamazione, e questo non è certo un fattore di deterrenza. Sarebbe piuttosto necessario garantire la chiara riconoscibilità degli account social media. L’assunzione delle proprie responsabilità così sarebbe garantita anche nelle attività digitali che sono ormai la principale dimensione nella quale si svolge la nostra vita, si assicurano i nostri redditi, si garantisce la nostra reputazione”.
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it
Caro presidente Moreno sicuramente lei ha agito così per omettere cose su suo conto che i suoi padroini avrebbero tirato fuori in caso lei avesse dato asilo a Julian. Anche lei parla di aiutare la popolazione e lo fa carcerando uno dei grandi esponenti sociali? Ci ha presi per dementi?
Liberate ASSANGE