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Per capire perché Mimmo Lucano, il sindaco di Riace ai domiciliari dallo scorso due ottobre non potrebbe assolutamente rilasciare interviste, bisogna andare tra le righe dell’ordinanza della Procura di Locri firmata da Luigi D’Alessio, in cui si legge che il provvedimento restrittivo è reso necessario per tre ragioni. Eccole.


1. Evitare l’inquinamento delle prove. Dopo che il Gip Domenico Di Croce ha rigettato alcuni capi d’accusa, le indagini sull’operazione Xenia, che già erano durate 18 mesi, proseguono. I tentativi di convincere l’opinione pubblica di un qualcosa che non trova riscontro nella mole massiccia di documenti può essere, dunque, letto, in un tentativo di inquinare il lavoro degli inquirenti. Forse, di influenzarlo con la pressione mediatica.

2. Evitare che Lucano continui a interagire con persone proprie del cosiddetto sistema Riace. Assieme a troupe televisive e giornalisti, Lucano potrebbe essere avvicinato tranquillamente dai factotum del sistema Riace. Una problematica che, allo stato, non sfiora nemmeno la magistratura, che continua a restare silente di fronte a ripetute comparse mediatiche. E i media che hanno sguainato la spada per difendere Lucano, stanno davvero facendo informazione o c’è dell’altro? Prendiamo un ex periodico calabrese, oggi disponibile solo online. Per il “modello” Riace ha raccolto la bella cifra di 250mila euro che – sorpresa – non ha mai raggiunto il conto corrente del Comune. Le casse di Recosol e di Città Futura (associazione che secondo lo stesso ministero dell’Interno avrebbe subappaltato a “Welcome”), sì.

3. Scongiurare i pericoli di fuga. Lucano è ai domiciliari ma non è da escludersi che, se le ipotesi della Procura venissero confermate, potrebbe rischiare il carcere. Eppure associazioni, politica, comunicatori, persino il presidente della Regione Mario Oliverio “premono” perché venga rimesso in libertà. Pensare che gli inquirenti già nell’ordinanza avevano messo nero su bianco i pericoli di fuga. Lucano a inizio del 2019, si legge, voleva partire per l’America con Lemlem, dove lo avrebbe atteso un lavoro di mediatore culturale. Proprio quel Lucano “semplice” e con istruzione talmente bassa da non riuscire a comprendere il senso delle carte che gli giungevano in Comune.

E Lemlem? Per qualche giornale rappresentativo della sinistra più defunta, cioè quella immaginaria, è addirittura “l’anima del progetto Riace”. Quella che “parla cinque lingue” e “ha attraversato con un barcone il Mediterraneo, lasciandosi alle spalle una storia drammatica”. Certo non deve essere facile, come riportato dall’inchiesta, avere ad Addis Abeba un cugino potente che gestisce le carceri ed è in contatto con le sfere governative più alte. Quel cugino che nelle intercettazioni deve essere “corrotto” per permetterle di farle entrare in Italia l’uomo da sposare, e invece arrestato. E a darle i soldi – provenienti dai cospicui finanziamenti giunti per i progetti fantasma – era proprio Lucano, come testimoniato dalle numerose conversazioni telefoniche.

Oggi la temuta signora Tesfahun abita a Roccella Jonica, dove viene raggiunta telefonicamente o di persona dagli amici giornalisti. Il tenore di vita raggiunto le ha consentito l’acquisto di una casa, dove abita con la figlia ed il nipote. Sua sorella, infatti, è morta in circostanze tutte da chiarire, e dunque la donna si è fatta carico del figlio lasciato. E’ come sempre inseparabile da Abeba: l’amica dei progetti cui stando a testimonianze dirette dovevano partecipare solo i pochi “approvati” da Lemlem. Era proprio quest’ultima a mettere mano al portafogli e a pagare, grazie ai continui foraggiamenti di Lucano, le sparute collaborazioni. In contanti, ovviamente, come assicurano testimoni diretti. Anche a Becki Moses sua maestà Tesfahun aveva detto no. L’avrebbe cacciata, e solo allora – esclusa da tutti i progetti ma anche dalla vita sociale di Riace – sarebbe arrivata nelle tendopoli di San Ferdinando, dove pochi giorni dopo la lite avrebbe trovato la morte.

Di sicuro Lemlem era importante nell’economia di Riace, anche in quella strettamente legata alle finanze: quanto c’era bisogno di contanti, chiamava Mimmo e risolveva. E così tra i fiumi di denaro andati in fumo ci sono anche quelli spesi per un guardaroba da far invidia  un’attrice. “Si cambiava più di tre volte al giorno”, ci ha confidato una persona vicina. Oggi ha l’immobile dove, tranquilla, abita e, sembrerebbe, la vicinanza con Lucano e il Sistema Riace gli hanno fruttato molto di più di un normale lavoro da mediatore. Succede quando i colpevoli, o presunti tali, si trasformano in eroi e non in persone che devono scontare il loro debito con la Giustizia.

OPINIONI

Non convince il presidenzialismo, né il premierato

“In una democrazia l’importante non è la governabilità, ma la rappresentanza” – di Vincenzo Musacchio

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Né presidenzialismo, né premierato. In una democrazia l'importante non è la governabilità ma la rappresentanza | Rec News dir. Zaira Bartucca

L’Italia è una Repubblica parlamentare con una forma di governo dove gli elettori votano i rappresentanti del Parlamento, i quali poi nomineranno il Presidente della Repubblica. Quest’ultimo nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, che presiede il Governo. Nella Repubblica presidenziale gli elettori (cioè il Popolo) eleggono direttamente il Presidente della Repubblica, il quale diventa sia Capo dello Stato, che del Governo. Un tipico esempio di questa forma di governo è in vigore negli Stati Uniti. Il Premierato è una “pseudo-forma di governo” non ben definita basata sulla legittimazione popolare del Capo di Governo (Premier).

Quale che sia il metodo di designazione di quest’ultimo e la qualificazione costituzionale del ruolo, ciò che determina la natura della sua leadership (e degli assetti di regime politico che ne conseguono) è il tipo di rapporti di potere che lo legano al Governo, da una parte, e al Parlamento, dall’altra: per cui si parla di premierato “forte” o “debole”, a seconda del modo e del grado di autonomia e di supremazia nel rapporto Governo-Parlamento. In Italia una forma di premierato forte l’abbiamo vissuta già più volte.

Quale delle tre forme di governo, presidenziale, parlamentare o premierato, sia più idonea ad avvicinare l’Italia ai Paesi in cui la democrazia funziona da secoli? La mia scelta cade sulla forma parlamentare. È l’opzione più democratica e più italiana anche se non ha espresso mai a pieno le sue potenzialità per le degenerazioni dei partiti che da centro di interessi pluralistici sono divenuti poi partitocratici originando una precaria governabilità e crisi politiche frequenti.

Una democrazia rappresentativa, per funzionare, potrebbe anche essere bipartitica. Del tema, del resto, ne discussero anche i nostri Padri Costituenti con l’obiettivo di semplificare il quadro politico frammentario. Mi appello a tal proposito a Piero Calamandrei che in sede Costituente così disse: «Come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti, ma che deve funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità di partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione?».

Ora il centrodestra, forte di un ampio consenso popolare, ci riprova con l’opzione presidenzialista, ma senza porre pregiudizi o preclusioni su altri modelli di riforma che mettano comunque i cittadini al centro delle scelte. Io sono per il legame diretto tra elettore ed eletto con le preferenze e con un bipartitismo alla inglese per superare definitivamente la stagione degli esecutivi che sovrastano il potere legislativo. Se riforma ci sarà spero sia con una maggioranza dei due terzi del Parlamento, evitando il rischio della demolizione con i referendum confermativi. La vera forza di una democrazia a mio parere non si gioca sulla governabilità ma sulla rappresentanza.

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OPINIONI

La storia recente ci insegna che i poteri del premier vanno limitati, non ampliati

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La storia recente ci insegna che i poteri del premier vanno limitati, non ampliati | Rec News dir. Zaira Bartucca

I condizionatori di Draghi (da posporre alla Pace), gli inseguimenti di chi fa jogging promossi da Conte e i nostalgici vicini alla Meloni avrebbero dovuto quantomeno insegnarci una cosa: non bisogna ampliare i poteri del premier ma, semmai, limitarli. Invece l’azione dei governi che si succedono è tutta tesa a limitare le prerogative del Parlamento, di fatto annullando la rappresentanza politica. Dimenticando, spesso, che la divisione dei poteri è condizione necessaria in democrazia, come racconta lo scacchiere internazionale messo a ferro e fuoco in Paesi che hanno un uomo solo al comando.

Aspetti che non sembrano sfiorare il governo, che ha annunciato che sul premierato andrà avanti comunque, opposizione o non opposizione. Ma allora a che servono i tavoli che si apriranno domani? E perché consegnare la parola ai cittadini solo alla fine di tutto l’iter, per giunta per mezzo dell’ennesimo Referendum farsa?

Si tenta di concentrare nelle mani di un unico soggetto un potere sempre crescente, e per fare cosa? Non per emanciparsi dall’Unione europea, tantomeno per ridare al Paese la sua sovranità – concetto che Fratelli d’Italia ha dimenticato una volta giunto al governo – o la crescita economica che merita. La preoccupazione è che il semipresidenzialismo, il premierato o il sindaco d’Italia – comunque si chiami il tentativo di mettere da parte la Repubblica parlamentare – possano essere solo l’occasione per calcare la mano su tutta una serie di cose che non si riescono ad attuare per una serie di (ovvie) resistenze da parte della società civile.

Fa pensare – e discutere – che a volere più poteri sia un governo che ha un ministro dell’Interno che crede ciecamente nei presunti pregi del riconoscimento facciale, e che ha un sottosegretario all’Innovazione che lavora alacremente per portare a termine quanto avviato dai governi Conte e Draghi. Che, per di più, ha finanziato la corsa agli armamenti di uno Stato estero, violando quel “L’Italia ripudia la guerra” di costituzionale memoria. Cosa succederebbe in un ipotetico futuro in cui la Camera e i parlamentari saranno acqua passata, in cui gli enti come Regioni e Comuni saranno simulacri svuotati di significato e basterà una firma del super-premier (magari con la contro-firma del super-presidente della pseudo-Repubblica) per prendere le decisioni che contano davvero? Come sarebbero gestiti eventuali periodi di emergenza, che già di per sé consegnano nelle mani del premier prerogative ampliate? Domande che ancora non sono entrate nel dibattito ma da cui si dovrebbe partire – a modesto parere di chi scrive – prima di giungere a decisioni drastiche e affrettate.

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Un altro atto di vandalismo compiuto dai cosiddetti attivisti per l’ambiente

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Un altro atto di vandalismo compiuto dai cosiddetti attivisti per l'ambiente | Rec News dir. Zaira Bartucca

Palazzo Vecchio, simbolo dell’architettura civile trecentesca fiorentina, imbrattato di arancione e la Fontana della Barcaccia di Roma inquinata con del liquido nero. Si difenderebbe così l’ambiente secondo gli “attivisti” di un collettivo che da settimane compie atti di vandalismo in giro per l’Italia. Attacchi ai beni culturali nazionali che con la protezione delle risorse non c’entrano nulla, come dimostra lo spreco di acqua e solventi che segue questo tipo di azioni dimostrative e che serve a ripristinare – per quanto possibile – i monumenti oggetto di deturpazione.

“Difendere l’ambiente”, dunque, inquinando le fontane, proteggere il paesaggio rovinando i palazzi storici, magari per fare in modo che le nuove generazioni (quelle che si scomodano tanto spesso) non ne possano fruire affatto. Una schizofrenia generalizzata che fa il paio con un ambientalismo fanatico e pericoloso che sta provocando danni tangibili e presto quantificabili, pensando sul bilancio di Comuni già in rosso. Dopo i danni provocati alla Fontana della Barcaccia, i cosiddetti attivisti rischiano ora una denuncia per danneggiamento.

Sulla vicenda si è espresso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: “L’ennesimo, gravissimo, episodio di questa mattina che ha colpito uno dei monumenti simbolo di Roma, la Fontana della Barcaccia di Piazza di Spagna, è la goccia che fa traboccare il vaso. È ora di dire basta: siamo davanti ad una sistematica azione di vandalismo del nostro patrimonio artistico e culturale che non c’entra assolutamente nulla con la tutela dell’ambiente. Chi danneggia i nostri beni culturali non può passarla liscia e va punito severamente. Anche per questo stiamo studiando una norma che faccia pagare ai responsabili di questi danni gli interventi necessari per il ripristino dei luoghi, spesso costosi perché richiedono specialisti e attrezzature adeguate”. Dello stesso tenore quanto affermato dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri: “Queste persone dovranno rispondere di quanto hanno fatto. Un atto illegale, dannoso e sbagliatissimo. E’ giusto che rispondano sulla base della legge e bisogna essere severi”.

Le reazioni della politica, comunque, rimangono piuttosto timide, e nessuno che si domandi com’è possibile che si riesca a compiere gesti simili eludendo la sorveglianza di chi è preposto al controllo dell’integrità dei monumenti storici.

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OPINIONI

Quello di Mollicone in realtà è un assist ai sostenitori dell’utero in affitto. Se non peggio

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Quello di Mollicone è un assist ai sostenitori dell'utero in affitto. Se non peggio | Rec News dir. Zaira Bartucca

“L’utero in affitto è un reato più grave della pedofilia”. Lo ha detto questa mattina il presidente della commissione Cultura della Camera ed esponente di FdI Federico Mollicone, ospite di Omnibus di La7. La frase ha scatenato aspre polemiche sia tra i sostenitori della mercificazione del corpo della donna e sia, di contro, in chi ci vede un qualcosa di assolutamente ambiguo e fuori luogo. Per quanto infatti Mollicone si sia affrettato a chiarire che lo sfruttamento di minori indifesi sia “un reato gravissimo”, rimane il mistero dell’utilità del paragone utilizzato.

Si può scomodare un reato che continua a mietere un sacco di vittime – con la compiacenza di tutti i governi che si succedono, compreso quello di Giorgia Meloni – e, in qualche modo, sdoganarlo e quasi scusarlo nell’ottica che ci sia qualcosa di “più grave”? Non sarebbe invece il caso che Fratelli d’Italia, oltre alla lecita battaglia sull’utero in affitto, cominciasse a dissociarsi da uscite assolutamente fuori luogo come quella di Mollicone e Nordio e iniziasse a rispondere a quella parte (tanta) dell’elettorato che anziché dichiarazioni ambigue chiede la punizione immediata di tutti i colpevoli di reati ai danni di bambini e minorenni? Perché fare una cosa non esclude l’altra, e bisognerebbe informare il presidente della Commissione Cultura che non ci sono reati migliori di altri.

Che poi dire una frase come quella pronunciata da Mollicone è come fare un clamoroso autogol, o meglio come dare un assist – cosa che in effetti ha fatto – ai sostenitori della pratica dell’utero in affitto. Messa così, l’ascoltatore medio chiamato a decidere quale reato sia più grave, è quasi tentato a provare più simpatia per la maternità surrogata se dall’altro lato della bilancia ci sono le violenze a danno di malcapitati minori. Insomma secondo gli ideatori di dichiarazioni di questo tipo – ovviamente riprese da tutta la stampa mainstream – il risultato in un modo o nell’altro è sempre garantito, se con risultato si intende il tentativo di normalizzare delle pratiche abominevoli e disumane, oltre che illegali.

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