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(Comunicato stampa)

Si è svolta martedì 4 giugno alle ore 17:00, presso lo Studio privato del presidente della Repubblica al Palazzo del Quirinale, la cerimonia di consegna della copia facsimile del Codex Purpureus Rossanensis, realizzata e contrassegnata ad personam, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Alla cerimonia sono intervenuti il ministro per i Beni e le attività culturali, Alberto Bonisoli, e l’arcivescovo di Rossano-Cariati, mons. Giuseppe Satriano. Il presidente Mattarella ha espresso particolare apprezzamento per il Codex Purpureus Rossanensis definendolo un vero gioiello di straordinaria bellezza, le cui pagine sono, tutte, un capolavoro. Il Capo dello Stato ha ringraziato l’arcivescovo, mons. Satriano, per la bella occasione che, ancora una volta, il patrimonio culturale del nostro Paese ha creato con questo incontro, complimentandosi anche per l’azione di valorizzazione che l’arcidiocesi sta costruendo attorno all’evangelario.  Il Presidente ha usato, infine, parole di apprezzamento per l’iniziativa editoriale e si è congratulato per la straordinaria bellezza della copia facsimile.

Un capolavoro assoluto di arte antica

Durante la cerimonia il ministro Bonisoli, che nel gennaio scorso si è recato a Rossano per prendere visione del prezioso e antico Codice conservato nel Museo Diocesano, ha parlato del Codex Rossanensis quale patrimonio Unesco e capolavoro assoluto di arte antica, ma, soprattutto, testimonianza di straordinario valore culturale, storico e religioso. Sua Eccellenza, il vescovo Satriano, ha ringraziato il presidente della Repubblica per le sue parole di apprezzamento e ha voluto sottolineare i valori del Codex Purpureus Rossanensis, a partire dalla sua preziosità ed unicità. Il Codice di Rossano, giunto dal vicino Oriente, con la sua storia millenaria, rappresenta quei valori culturali e di bellezza che da sempre l’Italia ha espresso rivestendo nell’aerea del mediterraneo il ruolo significativo di casa dell’umanità.

L’evangelario è giunto a noi dai primi secoli del Cristianesimo. Monsignor Satriano: “Forte testimonianza”

In particolare, monsignor Satriano si è soffermato sul significato che un’opera come questa rappresenta per la Calabria e la stessa Chiesa calabrese, realtà ricche di storia e di cultura che oggi più che mai vogliono crescere in questa propositiva e costruttiva direzione, soprattutto per il futuro dei giovani. Proseguendo nel suo intervento, il vescovo ha dichiarato: “Il prezioso evangeliario, giunto dai primi secoli del cristianesimo, è testimonianza forte della centralità dell’incarnazione del Cristo, per la storia di quel tempo. Anche oggi, intorno ad esso, andiamo realizzando, come piccola Chiesa locale, un autentico percorso d’incarnazione nei confronti di quelle fatiche e speranze che vive la nostra gente. La valorizzazione del Codex ci sta aiutando in un significativo percorso di umanizzazione, consapevoli dell’essere ambasciatori di storia millenaria e di religiosità viva che hanno attestato il nostro popolo nella capacità di essere accogliente e inclusivo. Anche a livello sociale, il Codex ci ha richiamato alla centralità della persona, cogliendo ogni opportunità per sostenere e valorizzare la crescita del territorio e  nuovi spazi di lavoro per i nostri giovani”.

Lo custodisce una Chiesa che è tra le più belle e suggestive d’Italia

Ha concluso il suo intervento monsignor Satriano rivolgendo al presidente Mattarella il caloroso invito a recarsi nella Diocesi di Rossano-Cariati, per vedere da vicino il Codice e le ricche testimonianze monumentali bizantine della chiesa locale, fra le più belle e suggestive d’Italia. Alla cerimonia hanno preso parte, per il MiBAC, il segretario generale Giovanni Panebianco; il capogabinetto Tiziana Coccoluto; il capo ufficio stampa del ministro Giorgio Giorgi. Per la Diocesi di Rossano-Cariati, il vicario generale e direttore del Museo Diocesano e del Codex, mons. Giuseppe Straface; il commissario prefettizio del Comune di Corigliano Rossano Domenico Bagnato; l’ex sindaco di Rossano Stefano Mascaro; il responsabile dell’Ufficio Diocesano Beni Culturali, don Nando Ciliberti; il segretario dell’Arcivescovo, don Domenico Simari; la vicedirettrice del Museo Diocesano e del Codex e responsabile di “Insieme per camminare” ente gestore del Museo Cecilia Perri; il consigliere delegato del gruppo editoriale “Franco Cosimo Panini” – che ha realizzato il facsimile – Lucia Panini; Rosi Fontana, curatrice della comunicazione per il Codex Purpureus Rossanensis.

Il manoscritto miniato è uno dei pochi esemplari di questo genere presenti al mondo

Il Codex Purpureus Rossanensis è uno straordinario manoscritto la cui colorazione porpora delle carte membranacee (pergamene) conferisce al volume valore di estrema sacralità. Si tratta di un oggetto prezioso, manifestazione di potere, opulenza e prestigio del possessore e della committenza e non poteva che appartenere ad una classe socio-economica assai elevata. Il Codex Purpureus Rossanensis, opera bizantina del VI secolo dopo Cristo in pergamena color porpora manoscritta e miniata, è estremamente importante sia dal punto di vista religioso sia dal punto di vista della manifattura, tali da rendere il substrato scrittorio simile a pochissimi altri esemplari finora esistenti, fra i quali la Genesi di Vienna e il Sinopense di Parigi. 

Vi si possono leggere due Vangeli

Il Codice di Rossano consiste di 188 fogli di pergamena di dimensioni 31 cm x 26 cm numerati recto-verso e scritte in caratteri in oro e argento. Per la sua consistenza, pur se mancante di molte pagine, il Rossanensis è il più prezioso fra i codici onciali (scritti in caratteri greci maiuscoli) dell’antichità. Ma soprattutto è l’unico codice rilegato, i codici analoghi sono ormai solo fogli sciolti. Esso contiene l’intero Vangelo di Matteo, parte del Vangelo di Marco, mentre sono interamente perduti i Vangeli di Luca e Giovanni, e una parte della lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei Vangeli.

In esso sono contenuti i capisaldi della Cristianità

Il Codex contiene 15 pagine miniate, in particolare si tratta di 12 miniature sulla vita di Cristo, una miniatura dei quattro Evangelisti, parte della Lettera di Eusebio a Carpiano racchiusa in una decorazione aurea e il ritratto di San Marco. Le miniature, nell’ordine in cui appaiono nell’attuale rilegatura, raffigurano: la Resurrezione di Lazzaro; l’ingresso di Gesù in Gerusalemme; il Colloquio con i sacerdoti nel tempio e la purificazione del tempio; la parabola delle dieci vergini; l’ultima cena e lavanda dei piedi; la Comunione degli Apostoli (che occupa due pagine del Codice); Cristo nel Getsemani; il Titolo a piena pagina delle tavole dei canoni; la Lettera di Eusebio a Carpiano; la guarigione del Cieco nato; la Parabola del buon Samaritano; il processo di Cristo davanti a Pilato, con il rimorso e suicidio di Giuda; la scelta tra Gesù e Barabba e, in ultimo, il Ritratto di San Marco con Sophia.

L’importanza della conservazione all’interno della sua diocesi. Niente cambiamenti per tramandarlo il più a lungo possibile alle future generazioni

L’opera nel 2015 è stata riconosciuta quale Patrimonio dell’Umanità ed inserito nella categoria “Memory of the world”. Nel 2016 è terminato il lungo lavoro di restauro eseguito dall’Icrcpal di Roma, intervento particolarmente rispettoso del delicato equilibrio di un’opera così antica, preziosa e importante, con il fine di tramandarla il più a lungo possibile alle future generazioni. Il Codex da tempo immemore è custodito nella Diocesi di Rossano-Cariati. Dal 1952 è esposto nel Museo Diocesano e del Codex che, nel 2016, ha visto un importante riallestimento con una sala interamente dedicata al Codice.

Le cinque copie

Nel 2017, per volere dell’Arcivescovo di Rossano-Cariati, Monsignor Giuseppe Satriano, è avviato il progetto di realizzazione di cinque copie del Codex Purpureus Rossanensis. La prima fra queste, realizzata in marocchino bruno tinto al vegetale con filetti e titolo al dorso e contrassegnata ad personam, è stata riservata al presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella. L’edizione facsimilare del Codex ha richiesto due anni di lavoro specialistico per sviluppare e adeguare le tecniche di stampa necessarie alla resa del fondo purpureo e alle peculiarità cromatiche del Codex. La preziosa edizione, realizzata da Franco Cosimo Panini Editore, garantisce l’assoluta fedeltà all’originale, oltre ad essere un progetto pionieristico che ha visto una significativa collaborazione di eccellenti maestranze e artigianalità italiane per la sua realizzazione.

ARTE & CULTURA

Al via workshop gratuito di teatro e filosofia

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Comunicato stampa

Sabato 18 Novembre, dalle 16:00 alle 19:30, in occasione della Giornata Mondiale della Filosofia, tutti invitati a un laboratorio che unisce il Teatro e la Filosofia, in cui i partecipanti organizzati in gruppi proveranno esercizi teatrali e dialoghi sul senso più profondo di alcune azioni quotidiane come “partecipare, imparare, lavorare, camminare e aiutare”. Il workshop di teatro e filosofia sul tema “Pensieri che diventano gesti, gesti che trasformano il mondo” è aperto ad aspiranti attori e/o appassionati di Filosofia, a chiunque piaccia recitare e a coloro che vorrebbero immedesimarsi nell’interpretazione dei grandi dilemmi del pensiero filosofico.

L’attività permetterà di migliorare le capacità espressive attraverso tecniche teatrali per scoprire le infinite potenzialità del nostro corpo. Impareranno a lavorare su un personaggio a livello fisico, emotivo e vocale attraverso esercizi ritmici, sonori, immaginativi, sensoriali e scoprire insieme il senso dei “gesti”. Il workshop sarà improntato su esercizi di lettura e interpretazione espressiva, l’utilizzo della voce così da scoprirne tutte le sfumature per amarne il senso e il valore. Si passerà poi alla redazione di testi di pillole filosofiche, lavorando a livello teatrale sulla specificità dei caratteri e sulla naturalezza espressiva.

Nello spazio Nuova Acropoli di Lorenteggio a Milano troveranno i curatori e attori dei gruppi di Teatrosofia, che dal 2014 mette in scena dal vivo e online dialoghi e interviste impossibili ai grandi filosofi del passato, e Teatropoli, progetto di aggregazione teatrale per la terza età. Un impegno che sostiene e mette in pratica l’idea che il Teatro sia qualcosa di profondamente legato ed aderente alla vita, alle urgenza espressive dell’artista e alla società. Al termine del laboratorio per chi vorrà, esercizio finale di “recitazione per il web” con la realizzazione di alcuni brevi video.  

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ARTE & CULTURA

Il (vero) Matisse e quel lavoro che pochi sanno

di Paolo Battaglia La Terra Borgese*

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Il vero Matisse e quel lavoro che pochi sanno | Rec News dir. Zaira Bartucca

Matisse sognava «un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, scevra da soggetti inquietanti o preoccupanti». Era un avvocato ma fu anche scultore. Il famosissimo pittore francese nato a Cateau e morto a Nizza, in verità studia preparandosi in Diritto, e solo nel 1890 comincia a dipingere.

Frequenta l’Accademia Julian, e diviene poi con Rouault e Marquet l’allievo di Gustave Moreau che lo influenzerà profondamente; fa numerose copie al Louvre e si lascia conquistare dall’impressionismo solo nel 1898 a Belle-Isle, in Corsica o sulla Costa Azzurra; l’influenza di Pissarro sarà molto importante. Matisse moltiplica intanto le sue esperienze e nel 1900 si avvicina anche alla scultura. A Collioure, Henri concede tutto il suo valore al colore libero e alle forme semplificate (1904-1905).

Fiero tra le belve del Fauvismo

Nella primavera del 1905, dopo il Salon des Indépendants di cui aveva presieduto la commissione, Matisse si stabilisce a Collioure dove viene raggiunto da Derain. E affascinato da Cézanne, interessato dal neoimpressionismo di Seurat e di Signac, Matisse. Farà parte della corrente dei fauves dal 1905 al 1908.

Più selvaggio di Tutti

A partire dal Salon d’Automne del 1905, durante il quale scoppia lo scandalo della «gabbia delle belve», Matisse sarà considerato il capo fila del movimento che esprime la selvaggia violenza espressiva del colore, ed eserciterà un notevole ascendente sui suoi compagni – evidenzia Battaglia La Terra Borgese.

Il rinnovamento necessario e l’Accademia

Nel 1908 Henri Matisse apre un’accademia, dove affluiscono gli allievi stranieri, soprattutto dei paesi tedeschi o scandinavi. I suoi quadri più importanti sono di questo periodo sono: Interno con organo (1900), Lusso, Calma e Voluttà (1905), Il lusso (1907).

Il filo a piombo di Henri Matisse

Signac, evocando il ricordo di Matisse mentre nel 1904 lavora a Lusso, Calma e Voluttà, scrive: «Matisse, prima del motivo, traccia il contorno dei suoi piedi sul suolo, come fa la modella in studio, per ritrovare il suo posto esatto. Tiene in mano un filo a piombo per studiare il minimo cambiamento di ritmo delle verticali. Guarda a lungo l’eucalipto fiorito e verdeggiante, dai molti rami, che sta di fronte a lui. Cerca poi pazientemente sulla sua tavolozza il colore che riempirà i contorni fissi ispirandosi alle forme evidenti. E cosi di questo albero fronzuto, sopprimendo rami e foglie, fa un cilindro nudo che non somiglia in niente a quello che la natura gli aveva offerto. Ma quando si rivede l’opera più tardi, lontano dalla precaria realtà, essa si manifesta in tutta la sua grandezza insospettata».

Mai galoppino dei movimenti artistici

Ancora, sempre nel 1908, Matisse pubblica nella Grande Revue, un manifesto in cui invita a sacrificare ogni significato oggettivo al sentimento dell’arabesco colorato. Henri non si lascerà sedurre dal cubismo e resterà fedele per tutta la sua vita ai soggetti ortodossi (nudi, interni, nature morte, paesaggi). Fa dei viaggi in Spagna e in Russia (lavora anche per i Balletti di Diaghilev dal 1905 al 1908), e dal 1911 al 1913 vive in Marocco.

La vera storia della Danza del 1910

È il 1917 quando Matisse si stabilisce a Nizza, e nel 1930 fa un viaggio negli Stati Uniti e a Tahiti; ed è così che, nel 1933, esegue per un collezionista americano, il dottor Barnes, la Danza, nella versione di una vasta decorazione murale.

Un nuovo costume artistico e la Biennale di Venezia

Nel 1938 Matisse si stabilisce a Cimiez nei pressi di Nizza e nel 1943 a Vence dove lavorerà alla decorazione della Cappella dei Domenicani. Dopo il 1947, l’artista si libererà completamente del classicismo, con le «carte ritagliate», vera ultima esplosione della sua arte. Nel 1950 riceve il Gran Premio di pittura della Biennale di Venezia.

I suoi capolavori

Tutta la vita di Matisse, creatore della pittura pura, è densa di capolavori: La gioia di vivere(1905), Lo studio rosso (1916), La lezione di piano (1917), Il ritratto di Mademoiselle Yvonne Landsberg (1914). Egli sognava «un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, scevra da soggetti inquietanti o preoccupanti».

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ARTE & CULTURA

I pittori fiamminghi e quella maniera di mescolare i colori che fece scuola

di Paolo Battaglia La Terra Borgese*

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I pittori fiamminghi e quella maniera di mescolare i colori che fece scuola | Rec News dir. Zaira Bartucca

I fratelli Van Eyck mostrarono ai loro colleghi di Gand una maniera interamente nuova di mescolare i colori. Non fu una scoperta fortuita, né repentina. Già al tempo dei Greci i pittori si preoccupavano di trovare una sostanza capace di legare i colori, così che restassero inalterabili e appiccicati alla materia su cui li applicavano, e non perdessero la brillantezza. Avevano provato l’aceto, il bianco d’uovo e altre misture: e i tentativi proseguirono per secoli. Nel medioevo gli artisti continuarono a servirsi, per la pittura murale, della tecnica dell’affresco.

Quando invece si trattava di eseguire dei dipinti trasportabili, bisognava rivestire di tela la tavoletta di legno, poi rivestire la tela con due o tre strati di gesso, poi strofinare il gesso finché risultasse liscio e lucido come il marmo. Finalmente su questa superficie venivano trasferite le linee preliminari del disegno, come oggi i disegni a matita sulla pietra litografica. Di regola era usato un fondo verdognolo o bruno, e su questo erano poi applicati i colori richiesti dal caso, legati con bianco d’uovo. Ma ogni singola pennellata era definitiva: nel senso che risultava difficile rimediare ad eventuali deficienze ed eseguire correzioni. C’era inoltre l’inconveniente che talvolta i colori non tenevano, e dopo qualche tempo il fondo bruno o verdognolo dava a tutto il dipinto un aspetto macabro, sinistro.

Finalmente, nella prima metà del Quattrocento, si sparse la voce (che fece drizzare le orecchie ai pittori italiani – la rete pullula di racconti) che nelle remote Fiandre era stato scoperto un nuovo modo di preparare i colori, ma nessuno riusciva a sapere di che si trattasse, perché naturalmente, il segreto era gelosamente custodito. Già: tutti muti come pesci. Si seppe solo che gli inventori erano due fratelli, nativi di Maeseyk nel Belgio, e chiamati Huybrecht e Jan van Eyck. Huybrecht (1366 – 1426) era il primogenito, e Jan era il suo apprendista.

Anche il loro modo di dipingere si differenziava da quello degli Italiani, perché questi ultimi provenivano, per così dire, dalle file dei mosaicisti, mentre i Fiamminghi, all’origine, si erano specializzati nella miniatura di manoscritti. Nel mezzogiorno dei Paesi Bassi questi manoscritti erano apprezzatissimi e perciò raggiungevano prezzi molto elevati, che i borghigiani di Gand e di Bruges non si facevano scrupolo di pagare perché erano, dopo i Fiorentini, i più ricchi mercanti d’Europa. Le due città erano sufficientemente distanti dal mare per non risultare esposte agli attacchi dei pirati, e per giunta erano allacciate per vie fluviali con le città dell’interno d’Europa; così che godevano di una situazione ideale per agire da intermediarie tra il continente e le Isole Britanniche.

L’Inghilterra era a quel tempo remota dal resto del mondo. Per lunghi secoli era stata alla mercé di qualunque tribù scandinava o germanica alla quale saltasse il ticchio di attraversare il Mare del Nord. Finalmente era stata conquistata da un duca normanno. L’usurpatore non solo le impose l’uso della propria lingua e delle proprie leggi, ma introdusse nell’isola anche l’architettura e le arti che erano in onore nei suoi possedimenti continentali. La cattedrale di Durham, infatti, iniziata nel 1093, ventisette anni dopo la battaglia di Hastings, era in origine di stile romanico, ma durante i cento anni che occorsero alla sua costruzione subì i mutamenti imposti dalla nuova moda e finì per risultare un edificio di stile gotico. E anche nelle chiese di data posteriore – di Wells, di Peterborough, di Westminster – il gotico prevalse, sebbene modificato dal gusto insulare degli architetti locali.

E niente, forse nel campo dell’arte l’Inghilterra procedette abbastanza benino dopo la conquista normanna, ma in quello del commercio certamente restò in coda. Quanto alle industrie: macché, era impossibile che fiorissero in quel paese dilaniato dalle lotte feudali. Si può dire che durante tutto il medio evo, l’Inghilterra avesse un solo articolo d’esportazione: la lana. Le Fiandre, invece, godendo di un periodo di relativa tranquillità, poterono dedicarsi all’industria tessile; tessevano la lana che importavano dall’Inghilterra, e vendevano i prodotti finiti in tutta l’Europa occidentale. In altre parole, detenevano il monopolio del commercio della lana. E, come accadde anche a Firenze, non appena i capitalisti ebbero accumulato risparmi, li impiegarono in ogni sorta di investimenti.

Anche la politica (e/o finanza) internazionale (e te pareva) contribuì al destino delle Fiandre. Esisteva a quel tempo nel cuore dell’Europa una specie di Stato, che è scomparso da molto tempo. Aveva cominciato ad acquistare importanza quando il figlio di Carlo Magno divise tra i suoi tre figli l’eredità paterna: era il paese noto sotto il nome di Borgogna. Cadde nelle mani di una famiglia ducale, capacissima e priva di scrupoli, che mirava a farne un vasto regno stendentesi dal Mediterraneo fino al Mare del Nord.

Se avesse potuto fondarlo, e se questo regno avesse potuto mantenersi indipendente, sarebbe stata una manna per il resto dell’Europa, perché avrebbe costituito uno Stato cuscinetto tra la Francia e la Germania e forse evitato un gran numero di guerre. Ma l’obiettivo non fu raggiunto. Tuttavia la Borgogna, all’apice del suo sviluppo, fu alla testa di tutta l’Europa per quanto si riferisce al benessere dei suoi abitanti, e i suoi duchi conducevano una vita di lusso adeguata ai cospicui fondi di cui disponevano.

Alla fine, i Duchi di Borgogna furono messi fuori combattimento da uno dei più odiosi personaggi che abbiano mai occupato il trono di Francia, ma durante il periodo della loro prosperità, realizzarono grandi cose. Chi visiti Bruges e Gand anche oggi dopo il loro letargo secolare, riesce facilmente a ricostruire lo sfondo di magnificenza sul quale spiccarono le figure di quei Duchi, sempre primi attori in tutti i drammi dell’alta società medioevale.

Questo lo scenario sul quale i fratelli Van Eyck fecero la loro comparsa al principio del Quattrocento. Vissero la maggior parte della loro vita nelle Fiandre. Lavoravano lentamente ma con deliberatezza, e la loro produzione fu limitata. Il loro stile era identico; tanto che ci è impossibile, studiando il celebre fronte d’altare della chiesa di Saint-Bavon di Gand, stabilire dove Huybrecht abbia smesso il lavoro che Jan portò a compimento. La loro abilità venne immediatamente riconosciuta dai contemporanei.

Huybrecht era pittore di corte presso il Duca di Borgogna che risiedeva a Bruxelles, mentre Jan fu dapprima pittore di corte presso il Conte d’Olanda, che per lo più risiedeva in quel suo padiglione di caccia che doveva diventare la città dell’Aja. Dopo la morte del fratello, Jan fu nominato pittore di corte del Duca di Borgogna. Nel 1428 fece parte dell’ambasciata che Filippo il Buono spedì a Lisbona per chiedere la mano di Isabella del Portogallo, ed eseguì il ritratto della futura sposa. Huybrecht morì a Gand nel 1426 e fu sepolto nella cattedrale dov’era (ed è) esposta la sua celebre Adorazione dell’Agnello. Jan morì a Bruges nel 144I e fu sepolto nella chiesa di San Donato.

Questo è all’incirca tutto quel che sappiamo sul loro conto. Ma è sufficiente per permetterei di vederli abbastanza bene. Erano due onesti lavoratori, paghi di essere riconosciuti come tali, ma consapevoli del valore delle loro opere e del rispetto che entrambi meritavano come maestri. All’esordio della loro carriera dipingevano solo soggetti religiosi, ma uscirono da questo campo e tentarono il ritratto. Il celeberrimo ritratto del giovane Arnolfini con la sposa, tradisce – nella cura dei particolari – il tocco di artisti cresciuti nella scuola di miniatori di manoscritti. I loro paesaggi, e le nature morte, rivelano una meticolosità di osservazione e di esecuzione che ci dice, sulla vita del tardo medioevo, più di quanto potrebbero dire interi volumi di parole stampate.

Così dicasi degli altri pittori che lavorarono nelle Fiandre in quel periodo di tempo o in quello immediatamente successivo. C’era Rogier van der Weyden da Bruxelles, il primo tra i Fiamminghi che visitarono l’Italia a scopo di studio. C’era Hugo van der Goes, che lavorò anche per le fabbriche d’arazzi e di vetri istoriati di Bruxelles e di Gand. C’era Gerard David, il primo tra gli Olandesi a salire in fama di pittore, e anche l’ultimo dei grandi maestri della scuola fiamminga; e c’era Hans Memling, un tedesco che dopo aver studiato a Colonia si trasferì a Bruges e vi dipinse, nell’ospedale, quel meraviglioso altare di Sant’Orsola che ha conservato intatta fino ai nostri giorni tutta la sua freschezza di colorito .

Un dettaglio dell’Arcangelo Michele della Pala del Giudizio Universale – R. van der Weyden, 1445 circa

Strano modo, per la verità, o ignoto; ma certa è una cosa: i primi pittori ad olio sapevano preparare i colori così che i loro dipinti resistettero al tempo e al clima molto meglio di numerosi quadri eseguiti nei secoli seguenti. È vero che lavoravano nelle migliori condizioni possibili. Avevano tutti gli assistenti che occorrevano e non avevano bisogno di affrettarsi. Non erano mai disturbati da chiamate telefoniche. Ed erano artigiani ancora rispettosi delle sane regole tradizionali.

La rinomanza di questi pionieri fiamminghi si propagò rapidamente, promovendo un nuovo entusiasmo per la pittura in Germania, specialmente nella valle del Reno. Aprì la strada e diede anzi l’avvio alla pittura olandese. In Italia, poi, determinò una vera “corsa al rialzo”. Ma nelle Fiandre la scuola dei grandi primitivi cessò con la stessa subitaneità con cui era sorta. Più tardi risorse, con Brueghel, Rubens e Van Dyck.

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ARTE & CULTURA

Il minimalismo (inedito) di Damnjan in mostra fino a metà ottobre

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Il minimalismo (inedito) di Damnjan in mostra fino a metà ottobre | Rec News dir. Zaira Bartucca
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Una preziosa collezione privata, 20 opere di Radomir Damnjan, per la prima volta esposta al pubblico, è il corpus della mostra “Dalla Pittura alla Pittura n.1”, che Spazio Roseto accoglie dal 7 al 17 ottobre 2023 in corso Garibaldi 95 a Milano. La collezione, appartenente al gruppo Roseto, comprende tutti i principali filoni dell’artista jugoslavo (Mostar 1936), il cui percorso pittorico accompagna la storia dell’arte mondiale per oltre mezzo secolo con intuizioni artistiche e produzioni imponenti che lo rendono uno dei protagonisti internazionali dell’evoluzione dell’arte mondiale dal secondo dopoguerra in poi.

Alla fine degli anni ’50 l’artista propone già una sua personalissima visione “immaginifica” della pittura con una impostazione solo apparentemente figurativa nelle serie delle Spiagge, oggi decisamente attuali nella loro percezione di infinito geometrico tra piani sovrapposti e moduli prospettici.

Da questi primi lavori deriva il lavoro degli anni ’60 che diventa più minimalista e che fa del rigore della forma e della linea/colore un manifesto della pittura analitica internazionale (sono gli anni di Documenta Kassel – 1964, della Biennale di Venezia -1966 e 1976-, del primo premio alla Biennale di San Paolo – 1963, del suo soggiorno Newyorkese, anni nei quali il suo lavoro si relaziona con la pittura analitica americana e con quella minimalista middle europea).

Altro tema è costituito dalle “corde” (nell’immagine in alto, “Pittura su corda”) dove la pittura sul supporto corda è un dialogo fisico con la spazio quadro e lo spazio ombra che si proietta attraverso la luce sul muro di fondo. Negli anni ’70 l’esasperazione del pensiero-arte lascia più ai margini la pittura a livello internazionale. Da qui nascono le disinformazioni dove il rigore è dato dal messaggio scritto – colore monocromo che spiazza a livello celebrale lo spettatore – in una impossibilità di riconoscimento tra messaggio scritto e input visivo, in tutto connotato da un messaggio politico sociale dove l’autorità crea una verità parallela alla realtà. Temi attualissimi.

Negli anni ’80 con il ritorno alla pittura su tela vera e propria, nascono le macule, in un progressivo riempimento coloristico dello spazio tela che è “esercizio di pittura”. Gli effetti visivi di questi lavori sono appaganti e gli abbinamenti cromatici sono impattanti, ma è un esercizio quasi spirituale legato al dipingere la pittura in un serrato scorrere del tempo scandito dai gesti progressivi sulla tela che riempiono lo spazio pensiero dell’artista fino ai giorni nostri.

La progressione pittorica di queste varie decadi di lavoro, in una evoluzione-involuzione costante di temi riproposti come filoni mai esauriti, fa ricadere la produzione dell’artista tutta sotto uno stesso cielo, come se lo spazio e il tempo scorressero, ma contemporaneamente appartenessero sempre al presente del medesimo gesto del dipingere.

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