
Ma che Hard Brexit, è la Russia che fa scappare la Regina
Elisabetta e famiglia avrebbero già pronto il piano di fuga nel caso in cui quanto stabilito nel Referendum avesse luogo. Rumors senza fondamento che nascondono un’altra verità
La Regina Elisabetta (sopra, con Giorgio Napolitano nel corso di una visita a Roma) avrebbe già cappottini e cappelli pastello in spalla, pronta a mettere in pratica un piano di evacuazione vecchio circa cinquanta anni (che risalirebbe alla Guerra fredda) assieme ai componenti più stretti della famiglia. Niente nucleo allargato (#chissene): assieme a Queen Elisabeth nel fantomatico ambiente – ci si immagini un bunker reale dotato di ceramiche, marmi e dettagli aurei – troveranno spazio solo Philip, Karl, William & Kate, Megan & Harry.
Lo riportano in maniera convinta i media commerciali, facendo riferimento a non meglio specificate “fonti governative”. Il motivo? L’Hard Brexit, certo, che tradotto non significa altro che: dare esito a un Referendum (quello, appunto, sull’uscita dall’Europa), che ha avuto un risultato quasi plebiscitario. Consentire a Theresa May, quindi, di dare seguito all’espressione popolare. Materia difficile da trattare, viste le pressioni vicine e lontane che stanno mettendo alla prova la Premier che, tuttavia, dimostra polso ben più duro di quello storicamente attribuito alla tedesca Thatcher. Tanto che in Francia viene già articolata come la “Dama di Piombo”.
Ma quali i sono i fantomatici pericoli dell’uscita dall’Unione europea? A quali danni potrebbe andare incontro un Paese che già conta su una (forte) moneta autonoma – la sterlina – e che geograficamente potrebbe godere, se lo volesse, di scambi commerciali alternativi all’Europa? Chiedere alla Regina che già nel messaggio di gennaio ha tentato di far imbeccare alla May una determinata strada (“La Gran Bretagna è da sempre un territorio “comunitario”, queste le sue parole), chiedere ai “democratici” di ogni latitudine (in Inghilterra si chiamano laburisti) o chiedere, perché no, ai media che ormai rifuggono da ogni processo di analisi, limitandosi a fare loro (ai dem) da cassa di risonanza.
Di vero c’è però una cosa, e lo dice il riferimento alla Guerra fredda che qualche comunicatore con troppa fantasia deve aver fatto passare in secondo piano, impegnato com’era a trovare difetti all’uscita dall’Europa (e già il Mail on sunday ha fatto notare che si tratta “dell’affermazione più sciocca sulla Brexit mai pubblicata”): l’impostazione post-bellica, tutto sommato attuale, continua a spaventare i reali inglesi e gli ammiratori delle beghe di Bruxelles. Tanto più che Vladimir Putin e il suo secondo, il ministro agli Affari esteri Sergey Lavrov, hanno fatto sapere nel corso di un incontro istituzionale che i missili ipersonici sono pronti e puntati sull’Europa. La stessa che – grazie presidente – ha rinnovato le sanzioni a Mosca, e la stessa che non fa altro che ignorare il sentire popolare. Ma meglio cambiare copione, forse, che vedersela con i Kalibr.
OPINIONI
Alluvione in Emilia, l’ipocrita circo mediatico per nascondere la verità
E’ un bilancio da guerra quello dell’ultima alluvione in Emilia Romagna. Un copione destinato a ripetersi ancora e ancora, una volta in questo pezzo d’Italia e una volta in quell’altro

Quattordici morti e 36mila sfollati. Abitazioni, strutture, aziende, fabbriche e campi da coltivazione distrutti, con il fango che inghiotte tutto e porta con sé devastazione e precarietà. E’ un bilancio da guerra quello dell’ultima alluvione in Emilia Romagna. Un copione destinato a ripetersi ancora e ancora, una volta in questo pezzo d’Italia e una volta in quell’altro, perché i miliardi stanziati dai vari governi per mitigare gli effetti del dissesto idrogeologico – sia esso frutto di comportamenti umani irrispettosi o di eventi naturali – non vengono mai impiegati dove servono.
Costruzione di dighe di contenimento, pulizia degli argini di fiumi e torrenti, prevenzione dell’abusivismo e suoi rimedi: nonostante le iniezioni continue di denaro (tanto), è ormai abitudine consolidata trascurare tutto, perché tanto poi a danni fatti si mette in moto la solita macchina dell’emergenza. Dopo l’acqua iniziano a piovere i miliardi, inizia il “magna magna” di chi controlla il business della solidarietà e si fa a gara a chi è più bravo a dire la frase a effetto per sostenere le popolazioni colpite, a chi fa la donazione più cospicua o a chi si intesta il gesto più eclatante.
Tutto doveroso, sia chiaro, ma non saranno certo 900 euro a testa o la premier in stivali a riportare in vita quattordici persone, oppure a restituire ai romagnoli le attività andate distrutte, forse per sempre. Senza contare che il circo mediatico che si è attivato fin da subito è tuttora teso a nascondere quello che conta davvero: le responsabilità. Quelle che negli ultimi anni – stando ai dati pubblicati da Legambiente – hanno fatto registrare dal 2010 a oggi 510 eventi alluvionali (per contare solo quelli censiti), con i relativi danni a cose e persone.
Si poteva evitare tutto questo? Di chi è la colpa? Cosa è mancato e continua a mancare? Cosa non hanno fatto e cosa hanno sbagliato gli enti che negli anni hanno amministrato i territori colpiti? E ancora: come evitare che catastrofi del genere si verifichino di nuovo? Perché se le alluvioni in Italia sono diventate la “nuova normalità” – per rubare un’espressione usata in epoca covid – si deve pensare che esista una certa volontà o quantomeno una qualche tolleranza verso questi fenomeni assolutamente prevedibili ed evitabili. Si sa che prima o poi pioverà, e oggettivamente esistono modi anche sofisticati per verificare se il territorio è pronto a gestire eventi piovosi di una certa portata. Se non lo è, basta intervenire, senza aspettare nuovi danni.
Scomodare il cambiamento climatico o “la siccità che rende i terreni impermeabili” non basta più, sono scuse che non possono reggere a lungo e soprattutto non possono bastare a chi ha perso tutto, tanto più che se le alluvioni in Europa sono un costume nazionale prettamente italiano un motivo ci deve essere.
OPINIONI
Non convince il presidenzialismo, né il premierato
“In una democrazia l’importante non è la governabilità, ma la rappresentanza” – di Vincenzo Musacchio

L’Italia è una Repubblica parlamentare con una forma di governo dove gli elettori votano i rappresentanti del Parlamento, i quali poi nomineranno il Presidente della Repubblica. Quest’ultimo nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, che presiede il Governo. Nella Repubblica presidenziale gli elettori (cioè il Popolo) eleggono direttamente il Presidente della Repubblica, il quale diventa sia Capo dello Stato, che del Governo. Un tipico esempio di questa forma di governo è in vigore negli Stati Uniti. Il Premierato è una “pseudo-forma di governo” non ben definita basata sulla legittimazione popolare del Capo di Governo (Premier).
Quale che sia il metodo di designazione di quest’ultimo e la qualificazione costituzionale del ruolo, ciò che determina la natura della sua leadership (e degli assetti di regime politico che ne conseguono) è il tipo di rapporti di potere che lo legano al Governo, da una parte, e al Parlamento, dall’altra: per cui si parla di premierato “forte” o “debole”, a seconda del modo e del grado di autonomia e di supremazia nel rapporto Governo-Parlamento. In Italia una forma di premierato forte l’abbiamo vissuta già più volte.
Quale delle tre forme di governo, presidenziale, parlamentare o premierato, sia più idonea ad avvicinare l’Italia ai Paesi in cui la democrazia funziona da secoli? La mia scelta cade sulla forma parlamentare. È l’opzione più democratica e più italiana anche se non ha espresso mai a pieno le sue potenzialità per le degenerazioni dei partiti che da centro di interessi pluralistici sono divenuti poi partitocratici originando una precaria governabilità e crisi politiche frequenti.
Una democrazia rappresentativa, per funzionare, potrebbe anche essere bipartitica. Del tema, del resto, ne discussero anche i nostri Padri Costituenti con l’obiettivo di semplificare il quadro politico frammentario. Mi appello a tal proposito a Piero Calamandrei che in sede Costituente così disse: «Come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti, ma che deve funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità di partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione?».
Ora il centrodestra, forte di un ampio consenso popolare, ci riprova con l’opzione presidenzialista, ma senza porre pregiudizi o preclusioni su altri modelli di riforma che mettano comunque i cittadini al centro delle scelte. Io sono per il legame diretto tra elettore ed eletto con le preferenze e con un bipartitismo alla inglese per superare definitivamente la stagione degli esecutivi che sovrastano il potere legislativo. Se riforma ci sarà spero sia con una maggioranza dei due terzi del Parlamento, evitando il rischio della demolizione con i referendum confermativi. La vera forza di una democrazia a mio parere non si gioca sulla governabilità ma sulla rappresentanza.
OPINIONI
La storia recente ci insegna che i poteri del premier vanno limitati, non ampliati

I condizionatori di Draghi (da posporre alla Pace), gli inseguimenti di chi fa jogging promossi da Conte e i nostalgici vicini alla Meloni avrebbero dovuto quantomeno insegnarci una cosa: non bisogna ampliare i poteri del premier ma, semmai, limitarli. Invece l’azione dei governi che si succedono è tutta tesa a limitare le prerogative del Parlamento, di fatto annullando la rappresentanza politica. Dimenticando, spesso, che la divisione dei poteri è condizione necessaria in democrazia, come racconta lo scacchiere internazionale messo a ferro e fuoco in Paesi che hanno un uomo solo al comando.
Aspetti che non sembrano sfiorare il governo, che ha annunciato che sul premierato andrà avanti comunque, opposizione o non opposizione. Ma allora a che servono i tavoli che si apriranno domani? E perché consegnare la parola ai cittadini solo alla fine di tutto l’iter, per giunta per mezzo dell’ennesimo Referendum farsa?
Si tenta di concentrare nelle mani di un unico soggetto un potere sempre crescente, e per fare cosa? Non per emanciparsi dall’Unione europea, tantomeno per ridare al Paese la sua sovranità – concetto che Fratelli d’Italia ha dimenticato una volta giunto al governo – o la crescita economica che merita. La preoccupazione è che il semipresidenzialismo, il premierato o il sindaco d’Italia – comunque si chiami il tentativo di mettere da parte la Repubblica parlamentare – possano essere solo l’occasione per calcare la mano su tutta una serie di cose che non si riescono ad attuare per una serie di (ovvie) resistenze da parte della società civile.
Fa pensare – e discutere – che a volere più poteri sia un governo che ha un ministro dell’Interno che crede ciecamente nei presunti pregi del riconoscimento facciale, e che ha un sottosegretario all’Innovazione che lavora alacremente per portare a termine quanto avviato dai governi Conte e Draghi. Che, per di più, ha finanziato la corsa agli armamenti di uno Stato estero, violando quel “L’Italia ripudia la guerra” di costituzionale memoria. Cosa succederebbe in un ipotetico futuro in cui la Camera e i parlamentari saranno acqua passata, in cui gli enti come Regioni e Comuni saranno simulacri svuotati di significato e basterà una firma del super-premier (magari con la contro-firma del super-presidente della pseudo-Repubblica) per prendere le decisioni che contano davvero? Come sarebbero gestiti eventuali periodi di emergenza, che già di per sé consegnano nelle mani del premier prerogative ampliate? Domande che ancora non sono entrate nel dibattito ma da cui si dovrebbe partire – a modesto parere di chi scrive – prima di giungere a decisioni drastiche e affrettate.
OPINIONI
Un altro atto di vandalismo compiuto dai cosiddetti attivisti per l’ambiente

Palazzo Vecchio, simbolo dell’architettura civile trecentesca fiorentina, imbrattato di arancione e la Fontana della Barcaccia di Roma inquinata con del liquido nero. Si difenderebbe così l’ambiente secondo gli “attivisti” di un collettivo che da settimane compie atti di vandalismo in giro per l’Italia. Attacchi ai beni culturali nazionali che con la protezione delle risorse non c’entrano nulla, come dimostra lo spreco di acqua e solventi che segue questo tipo di azioni dimostrative e che serve a ripristinare – per quanto possibile – i monumenti oggetto di deturpazione.
“Difendere l’ambiente”, dunque, inquinando le fontane, proteggere il paesaggio rovinando i palazzi storici, magari per fare in modo che le nuove generazioni (quelle che si scomodano tanto spesso) non ne possano fruire affatto. Una schizofrenia generalizzata che fa il paio con un ambientalismo fanatico e pericoloso che sta provocando danni tangibili e presto quantificabili, pensando sul bilancio di Comuni già in rosso. Dopo i danni provocati alla Fontana della Barcaccia, i cosiddetti attivisti rischiano ora una denuncia per danneggiamento.
Sulla vicenda si è espresso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: “L’ennesimo, gravissimo, episodio di questa mattina che ha colpito uno dei monumenti simbolo di Roma, la Fontana della Barcaccia di Piazza di Spagna, è la goccia che fa traboccare il vaso. È ora di dire basta: siamo davanti ad una sistematica azione di vandalismo del nostro patrimonio artistico e culturale che non c’entra assolutamente nulla con la tutela dell’ambiente. Chi danneggia i nostri beni culturali non può passarla liscia e va punito severamente. Anche per questo stiamo studiando una norma che faccia pagare ai responsabili di questi danni gli interventi necessari per il ripristino dei luoghi, spesso costosi perché richiedono specialisti e attrezzature adeguate”. Dello stesso tenore quanto affermato dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri: “Queste persone dovranno rispondere di quanto hanno fatto. Un atto illegale, dannoso e sbagliatissimo. E’ giusto che rispondano sulla base della legge e bisogna essere severi”.
Le reazioni della politica, comunque, rimangono piuttosto timide, e nessuno che si domandi com’è possibile che si riesca a compiere gesti simili eludendo la sorveglianza di chi è preposto al controllo dell’integrità dei monumenti storici.