
Becky e i “giornalisti” senza vergogna
Dal punto di vista della comunicazione la vicenda della povera Moses morta a San Ferdinando ha tre fasi: quella del silenzio, quella della manipolazione e infine quella dell’accaparramento coatto
Avevamo deciso di essere pacifici e di non intraprendere questa discussione. Alla quinta domanda che ci è giunta sull’argomento abbiamo pensato che forse era il caso di dirle, due parole. Ma serve un piccolo preambolo. Non siamo nuovi ai plagi. Quello di Francesco Storace su un articolo di Mimmo Lucano fino a questo momento era stato il più clamoroso a noi noto. Adesso una “televisione crossmediale” ha anche superato il politico “giornalista”.
L’emittente con la nostra esclusiva su Becky Moses non solo ci ha confezionato un articolo copiando perfino il titolo, ma – come gli studenti delle barzellette che mettono sul loro elaborato il nome del compagno di banco – ha ricalcato perfino il disclaimer dove invitavamo i gentili colleghi a spremere le meningi anziché lavorare a forza di pollici e indici. Non pago, un tale Pino Gagliano con l’articolo ci ha fatto anche un servizio.
Certo, capita a tutti di leggere notizie fabbricate all’esterno della propria testata e di scoprire che sono inedite o trovarle interessanti e ben fatte. A noi è capitato proprio ieri con un articolo del Corriere del Ticino. Abbiamo ripreso collateralmente la notizia e l’abbiamo impostata con altri criteri, ma citando debitamente la fonte. Se riprendiamo un’agenzia quasi integralmente, in basso specifichiamo da dove viene. Telemia e Pino Gagliano, avrebbero potuto fare altrettanto. Non l’hanno fatto e non cade il mondo, però vorremmo sottolineare sommessamente che scriviamo per i lettori, non per fare un regalo a chi vuole dare (senza, per giunta, riuscirci) l’impressione di fare tanto, ma con troppo poco.





OPINIONI
Tanto valeva tenersi Draghi. O Conte. O Letta

Tanto valeva tenersi Draghi, o Conte o Letta. Il Draghi bis in quei rocamboleschi mesi estivi che hanno portato alla formazione dell’attuale esecutivo era tutto nell’aria, e in effetti c’è stato: è il governo Meloni. Qual è la differenza tra la prima premier donna italiana e il “banchiere centrale senza cuore” (cit.)? Non la sudditanza verso l’Ue, non l’adesione al regime di controllo sovranazionale e non l’approccio a eventuali future – Dio ce ne scansi – emergenze sanitarie costruite a tavolino. Non la corsa agli armamenti e nemmeno la gestione dei migranti. Con i quali, al di là delle bagarre di facciata, le assonanze sono tutte verso il Pd di Letta e Schlein. Tanto che in queste ore il cognato di Giorgia Meloni, il ministro Francesco Lollobrigida, ha annunciato un “Piano” per far arrivare mezzo milione di migranti regolari.
Tanto aveva affermato a margine di un punto stampa prima che la segreteria di partito gli facesse notare che troppa sincerità in politica non va bene, e a quel punto le 500mila “regolarizzazioni” si sono trasformate in 500mila “richieste”. Lollobrigida ha fatto di più, affermando che la marea umana in Italia “dovrà trovare lavoro”, ne ha diritto, per carità, ma quello che continua a sfuggire è quel “dove” a cui nemmeno il governo Meloni ha saputo dare risposta. E’ di oggi la notizia delle proteste degli operai di Portovesme, fabbrica sarda di zinco e materiali non ferrosi che rischia di chiudere i battenti, lasciando a casa 1300 maestranze.
Si tratta di una delle ultime fabbriche italiane – se non l’ultima – che si dedica a questo tipo di produzione. E allora, al di là degli annunci, cosa è stato fatto per elevare i livelli occupazionali? Cosa si farà per frenare gli arrivi, visto che togliere il telecomando alle Ong per darlo al governo non basta a rendere il Paese vivibile per tutti quelli che ci sono e per quelli che arriveranno? Dove sono finite le battaglie per le famiglie e che fine hanno fatto quei minori abbandonati dalle Istituzioni di cui Meloni aveva parlato in fase di insediamento? Tra le pieghe delle larghissime intese, forse, tra una telefonata di incoraggiamento a Schlein e un’apparizione in prima serata di Bruno Vespa, manco fossimo tornati alle telefonate in diretta di Berlusconi. Tanto valeva…

Si può rendere onore solo a chi compie il proprio dovere, come quando si rende una cambiale a chi l’ha onorata perché ha fatto fronte agli impegni assunti. Mantenere una promessa, come pure agire secondo coscienza, significa compiere il proprio dovere senza che l’etica umana e la parola data vengano disattese. Il termine “onorevole”, riferito a un eletto, peraltro, non è mai stato istituito, dunque non esiste, è solo una cattiva abitudine che prese il via l’11 maggio del 1848, quando alla Camera subalpina fu letta una comunicazione del deputato Tola che iniziava con “Onorevoli deputati”. Forse allora si mantenevano le promesse elettorali.
Ed è proprio così. Assolutamente. Perché se tu prometti, per fare un esempio, che una volta eletto abolirai la caccia e poi non lo fai, avrai tradito il mio voto di animalista, non avrai compiuto il tuo dovere perché disonori la promessa, e avrai pure disatteso la coscienza, cioè l’etica, quella parte divina che è dentro di noi. Poco importa se non manterrai la parola data in maniera premeditata o meno, perché, per dirla nei modi di alcuni aulici ambienti sociali e filosofici, è prescritto: “Sventurato colui che accetta un incarico che non saprà portare a termine”.
Il termine Onorevole, oltretutto, è oggi fuorviante, ubriacante, perché chi è così appellato, perde di vista la realtà, è propenso a riempirsi di sé, e si convince di essere superiore agli altri cittadini a cui invece deve rendere devoto un servizio, sia perché lo hanno eletto, sia perché lo retribuiscono. È un problema di educazione che riguarda il progressivo scadimento valoriale della parola “onorevole”.
E il segreto dell’educazione è nella personalità dell’educatore, cioè dello Stato; ovverosia il segreto dipende dalla volontà degli uomini, che purtroppo sono stati emarginati in un quietismo politico, costretti come sono a decidere se mangiare o pagare le bollette.
OPINIONI
Il monologo di Chiara Francini è una brutta e tetra parodia del capolavoro di Oriana Fallaci

Nel 1975 la grande giornalista Oriana Fallaci scriveva un libro che ormai è un classico della contemporaneità. “Lettera a un bambino mai nato” è un libro diventato negli anni la pietra miliare dell’analisi introspettiva sulle donne che non sono madri, sul dramma dell’aborto, sulla famiglia e sui legami sentimentali. Un diario vero, convincente, doloroso e genuino che ha contribuito a dare spessore alla figura della nota editorialista e inviata di guerra.
Oggi, nel 2023, cosa avrebbe pensato la grande Oriana del monologo di Chiara Franchini presentato a Sanremo? Come avrebbe commentato – lei che ha sondato il tema per necessità e non per committenza politica – un soliloquio in cui si sente la forzatura di doversi appellare per forza all’universo lgbt (“Se sarai maschio io so e, quasi spero, che sarai gay”) arrivando a discriminare gli eterosessuali e perfino a insultare la vita appena nata con un discutibile “neonati mostruosi”?
Oriana che un figlio non lo ha mai avuto ma – dopo l’esperienza drammatica dell’aborto – lo ha desiderato più di prima, non si è mai sentita “una fallita” per non aver potuto generare altra Vita (forse perché aveva fatto tante altre cose importanti), né ha mai scritto parole di odio e di invidia verso chi questa fortuna l’ha avuta, e non per questo deve essere messo alla berlina in prima serata.
Ma tanto Sanremo ormai è solo questo, e dopo l’uscita infelice di Paola Egonu è anche il luogo dove si tenta di ridicolizzare le famiglie italiane: “Un esercito – per dirla alla Francini – di donne coi capelli corti e di maschi stempiati con la panza”, colpevole di volersi bene, di stare insieme felicemente e di aver voluto perpetuare un legame sentimentale con una nascita, che è la gioia più grande che può essere concessa a un uomo e a una donna che si amano.
Ma in quel di Sanremo non c’è spazio per valori come questi, per carità. Anzi. “Odia, odia, odia ciò che si deve odiare”, rimarca una Francini che appare, oltre che teatrale, tetra, “perché – continua l’attrice – è con quell’odio che si fanno le cose. Non è vero che si fa con l’amore. Sì, con l’amore si fanno delle cose, ma il grosso si fa con quell’odio lì. Profondo, viscerale, instancabile”.
Parole che Oriana Fallaci – pur nota per il suo carattere burbero e a volte solitario – non avrebbe di sicuro mai detto né scritto. Anzi, forse avrebbe fatto perfino una delle sue strigliate di testa epocali a certi ipocriti che un giorno lottano contro i discorsi d’odio e il bullismo, e il giorno dopo invitano ad odiare, come se l’essere disumani fosse ormai la cosa più naturale del mondo.
“Lettera a un bambino mai nato” – assieme a tutta l’esistenza della Fallaci – è stato invece un inno all’Amore e alla Vita, non una tirata a favore dell’abbruttimento morale e della denatalità. Un inno alla lotta per determinati valori che, in fondo, non è altro che una lotta per la gente, per persone che ci circondano e che – proprio come chi deve nascere – non conosciamo ancora, eppure siamo legati a a loro, in perfetto equilibrio, attraverso dinamiche insondabili.
OPINIONI
Se l’Italia fosse un Paese razzista, il personaggio di Egonu non esisterebbe

In un’Italia “razzista”, popolata da razzisti, la signora Enogu non avrebbe mai potuto fare la carriera sportiva che tutti le riconoscono. Semplicemente, se l’Italia fosse stata il Paese che lei dice, sarebbe rimasta una raccattapalle e non sarebbe diventata certo una campionessa di fama mondiale. Non parliamo poi della maglia Azzurra, quella della Nazionale, che in questo Paese di sovranisti, xenofobi e suprematisti (perché non aggiungerlo, visto che è il sottotesto?) le è stata concessa senza problemi, senza neppure chiederle due parole di riconoscenza in cambio.
L’Italia è un Paese che accoglie ed è fin troppo tollerante, se persone come Egonu possono offenderlo dal podio di una trasmissione che da più di un decennio più che canzoni fa politica. Molti italiani (non tutti, ma solo perché ognuno ha i suoi beniamini) seguono questa giovane donna, la apprezzano, la sostengono per quello che è e anche per quello che rappresenta: ha senso seppellire il loro affetto per la pubblicità di una giornata o per un punto di share in più? E’ giusto – per dirla molto più semplicemente – sputare nel piatto in cui si mangia? Che poi, a questo punto, gli italiani “razzisti” ma intelligenti Sanremo non lo guarderebbero neppure, perché non avrebbe senso contribuire all’aumento dei ricchi caché di chi si sforza di costruire un’immagine distorta di un Paese che non sente suo.
Evidentemente, l’Italia non appartiene a Egonu ed Egonu non appartiene all’Italia, perché questo Paese – fragile e meraviglioso al contempo – non è solo un luogo fisico e ideale, ma un vero e proprio stato d’animo. Sull’Italia è stato detto e scritto davvero di tutto, e ormai è quasi uno sport internazionale vilipenderla, offenderla, ridicolizzarla. Semplicemente perché, dopo millenni di storia fulgida, continua a suscitare l’invidia di chi non si reputa alla sua altezza. Di chi si sente sempre come un corpo estraneo e potrebbe, quindi, farsi il regalo di lasciarla andare.