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Dalù ci gela nel corso dello scambio di battute che abbiamo avuto con lui: in Cina il giornalismo e lo stesso concetto di cittadino “non esistono”. Una visione apparentemente radicale ma rispettabile, per due semplici motivi: proviene da un cinese (che ha dovuto trovare rifugio in Europa a causa della dittatura imposta dal regime) che per giunta è pure giornalista. Non uno qualunque, perché le voci libere in grado di dissentire non si trovano spesso, figurarsi in un Paese reso piatto, fondato sull’omologazione e totalitario come la Cina. Lì, nel 1995, Dalù ha fatto quello che è stato considerato un gesto rivoluzionario: tentare di riesumare in diretta radio la memoria del massacro di piazza Tienanmen. E’ stato il suo primo risveglio, quello professionale. L’altro, interiore, è avvenuto più tardi, nel 2010, quando ha trovato la fede ed è diventato un fervente cattolico, aspetto che lo ha unito ancora di più all’Italia, dove è giunto dopo mille peripezie. Una storia unica che – ha anticipato – sarà presto raccontata in un libro. Il testo parlerà anche delle “trappole” che la Cina sta preparando per il mondo, Italia compresa.

Com’è nata la sua passione per il giornalismo?

La mia passione iniziale riguardava il cinema. Mi sarebbe piaciuto entrare nella prestigiosa accademia di Pechino e diventare un regista. Tuttavia, mia madre non approvò questa scelta, dovetti quindi modificare le mie ambizioni per chiedere di essere ammesso alla scuola di giornalismo di Pechino. Durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976), il Partito Comunista Cinese impose a tutti i cinesi di imparare una canzone: “Il Partito è mia madre”. Il Partito Comunista usa l’immagine benevola della madre per far accettare ai cinesi il fatto malvagio che il partito sia la madre del Paese. Questa è una meravigliosa arma magica per il successo del Partito Comunista Cinese che ha ridotto in schiavitù la Cina per 70 anni. Mi sono dovuto adeguare anche io ed ho dovuto obbedire all’autorità di mia madre. Dovevo diventare un giornalista.

Com’è fare il giornalista in Cina?

Non ci sono notizie in Cina e non ci sono testate giornalistiche nel concetto occidentale e quindi non c’è nemmeno la figura del giornalista presente nel vostro immaginario. E’ assente. La Cina ha solo una macchina di propaganda controllata dal Partito Comunista Cinese. Tutte le testate giornalistiche fanno parte della macchina e devono attuare pienamente gli ordini di propaganda del Partito. Prima di ricevere il tesserino professionale, i “giornalisti” devono imparare a cantare un’altra canzone: “Io sono la lingua della madre”. Come in tutte le istituzioni sociali, le imprese, le scuole, gli ospedali e le forze armate in Cina, i top manager non sono presidenti, manager, presidi o ufficiali militari ma rappresentanti del partito. L’attuale responsabile delle testate giornalistiche non è il redattore capo ma l’organizzazione del partito. L’organizzazione del partito annuncia gli ordini e la disciplina di propaganda a tutti i giornalisti, redattori e moderatori. Devi condurre interviste, organizzare articoli e programmi in conformità a questi comandamenti e discipline, e pubblicarli dopo essere stati esaminati.

Nel 1995, quando era un cronista di una radio di Shangai, è stato licenziato per aver fatto un riferimento alla strage di piazza Tienanmen. Come ha vissuto quella decisione? Ricorda qualche episodio che non ha ancora raccontato?

Il mio spirito ribelle viene da mio padre. Sia all’università che alla radio, scoprì che le persone intorno a me erano membri del Partito Comunista. I loro genitori erano membri e funzionari del Partito. Non avevo alcuna relazione con il Partito ma sono stato ammesso con i miei punteggi dei test e le mie superbe abilità e quindi potevo osservare e pensare liberamente. Erano trascorsi esattamente sei anni dal massacro di piazza Tiananmen. Come negli anni precedenti, l’organizzazione del partito aveva ribadito la sua disciplina di propaganda a tutti i giornalisti con due settimane di anticipo. Quel 4 giugno 1995 era domenica, il giorno in cui il mio programma veniva regolarmente trasmesso in diretta nella radio di Shanghai. Ho deciso di intraprendere un’avventura senza precedenti nella storia cinese. Ho arrangiato con cura lo spettacolo. Subito dopo la trasmissione, mi trovavo ancora nella sala di trasmissione in diretta, ricevetti una chiamata dal mio caporedattore. Il mio programma aveva seriamente infranto la linea rossa e informarono immediatamente il mio direttore e la polizia armata nella stazione radio.

Cos’è successo a quel punto?

Sebbene non mi abbiano arrestato sul posto, hanno monitorato tutti i miei spostamenti, le telefonate ed i messaggi di testo. Credevano fossi una spia americana. Non potevano far scomparire un giornalista di punta perché la Cina pianificava il suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio che avvenne nel 2001. Il giorno successivo fui sospeso e il mio spettacolo fu cancellato definitivamente dal palinsesto. Dalù fu espulso e diventò l’esempio di intimidazione per gli altri “giornalisti” cinesi. Il revisore mi disse: “Dovresti ringraziare l’organizzazione del partito. Se questo fosse successo in un altro momento storico saresti stato fucilato sul posto. La mamma è gentile”.

Lei è cristiano, ma ha scoperto la sua fede quando era più vicino all’Italia che alla Cina. Come vivono il loro culto i cinesi in patria? Il governo che atteggiamento ha verso di loro?

Dopo aver lasciato la stazione radio, ho iniziato una vita di emarginazione sociale per 25 anni. Dopo 15 anni di stenti e lotte, per caso, sono entrato a far parte di un coro cattolico. Decisi di accettare il Vangelo. Nel 2010 ho deciso di ricevere il battesimo cattolico. A quel tempo, non ero del tutto consapevole della situazione speciale della chiesa cinese. Non dimenticate che, in quanto madre del Paese e del popolo, il Partito Comunista Cinese ha il diritto di controllare tutto. La persecuzione politica si trasformò quindi in persecuzione religiosa. Arrestarono il vescovo Ma Daqin di Shanghai. Io ero uno dei suoi più accaniti sostenitori. La vita del cattolico cinese è molto difficile.

A partire da gennaio tutti abbiamo visto le immagini di cittadini cinesi prelevati con forza dalle loro abitazioni e obbligati a raggiungere i centri covid. Gli atti di forza da parte delle istituzioni sono episodi frequenti nella Cina di oggi?

Innanzitutto, devo correggere una parola sbagliata contenuta nella domanda. Sotto il governo del Partito Comunista Cinese non esiste il concetto di cittadinanza reale come pensate. I cittadini esistono solo sulle leggi mai applicati da un regime oppressivo. In un Paese senza veri giornalisti è possibile che qualcuno usi il telefono per provare a documentare I fatti reali. Non ho vissuto questa fase in Cina perché ero già fuggito qualche mese prima. Perché fuggire? Perché per me la Cina sotto la dittatura non è mai stata un paese nel senso comune del termine ma un enorme campo di concentramento.

Cosa ne pensa delle proteste che stanno animando Hong Kong?

La gente di Hong Kong è stata abituata a un sistema democratico stabilito dagli inglesi per più di 100 anni. Libertà e giustizia erano le loro madri. Per proteggere se stessi e i loro discendenti dalla schiavitù del totalitarismo e dall’oppressione comunista combattono pacificamente da più di un anno. Oggi, il mondo intero ha visto che il Partito Comunista Cinese utilizza la Legge sulla Sicurezza Nazionale come una nuova Costituzione. Credo che se la comunità internazionale si rendesse conto che proteggere e salvare Hong Kong significa proteggere e salvare se stessa, intraprenderebbe sicuramente azioni più incisive di quelle attuali.

Di cosa si sta occupando in questo momento? Progetti futuri?

L’Italia è un paese libero e bello, la culla del Rinascimento. Attualmente vivo nella regione del grande missionario Matteo Ricci. Qui posso respirare l’essenza del Vangelo. Ho incontrato molte persone che sono molto entusiaste e generose nell’aiutarmi. In particolare, il mio destino si è casualmente incrociato con quello dell’avvocato Luca Antonietti. Lui ha studiato in uno dei feudi del Partito a Shanghai. Mi ha aiutato ad ottenere lo status di rifugiato e mi ha accettato come membro della sua famiglia. Ho riconquistato mio padre, mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle. Attualmente sto scrivendo un libro. Il contenuto parla della mia vita miserabile e del ritrovare la speranza per spiegare al mondo la cultura cinese e le trappole che il Partito Comunista Cinese ha preparato per il mondo.

Direttore e Founder di Rec News, Giornalista. Inizia a scrivere nel 2010 per la versione cartacea dell'attuale Quotidiano del Sud. Presso la testata ottiene l'abilitazione per iscriversi all'Albo nazionale dei giornalisti, che avviene nel 2013. Dal 2015 è giornalista praticante. Ha firmato diverse inchieste per quotidiani, siti e settimanali sulla sanità calabrese, sulle ambiguità dell'Ordine dei giornalisti, sul sistema Riace, sui rapporti tra imprenditoria e Vaticano, sulle malattie professionali e sulle correlazioni tra determinati fattori ambientali e l'incidenza di particolari patologie. Più di recente, sull'affare Coronavirus e su "Milano come Bibbiano". Tra gli intervistati Gunter Pauli, Vittorio Sgarbi, Armando Siri, Gianmarco Centinaio, Michela Marzano, Antonello Caporale, Vito Crimi, Daniela Santanché. Premio Comunical 2014. Autrice de "I padroni di Riace - Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato". Sito: www.zairabartucca.it

ARTE & CULTURA

Cucinotta a Rec News: “Il mio Sud nel nuovo film da protagonista” (Video e Gallery)

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Maria Grazia Cucinotta a Rec News: "Vi racconto il mio Sud nel nuovo film da protagonista" (Gallery) - Gli agnelli possono pascolare in pace anteprima
Foto ©Denys Shevchenko/REC NEWS

Maria Grazia Cucinotta è la protagonista del nuovo film di Beppe Cino “Gli agnelli possono pascolare in pace”, presentato ieri in anteprima a Roma al Cinema Caravaggio e nelle sale dall’11 aprile. Nella pellicola ambientata in Puglia è Alfonsina, donna ingenua con abitudini singolari che a un certo punto viene colta da sogni rivelatori.

Bidella in pensione devota al culto dei cari defunti e lontana dal fratello, sarà un inaspettato incontro con il Sacro a mettere ordine in tutti quegli aspetti della sua vita rimasti in ombra, e a svelare i legami e i segreti che animano il borgo pugliese dove abita. Abbiamo intervistato Maria Grazia Cucinotta a margine della proiezione dell’anteprima romana.

Quanto c’è di lei nel film “Gli agnelli possono pascolare in pace?

Di sicuro il Sud. Il Sud mi appartiene e di conseguenza c’è molto di questo suo modo di essere. Attaccata alla terra, attaccata agli affetti, attaccata alla verità. E’ anche un personaggio molto distante. E’ una bidella che ama Pasolini e sembra uscita un po’ fuori da una favola. Anche il mondo che la circonda sembra essere uscito fuori da un piccolo metaverso che si muove in un mondo moderno.

Il film ha un messaggio particolare?

Ce ne sono tanti di messaggi, tra l’altro attualissimi. Tutte le guerre sono dettate dai confini e dal potere e un po’ questo film parla proprio di questo e al fatto che tutti i confini e tutti i pregiudizi portano alla fine alla rabbia e alla non accettazione. E’ un messaggio molto importante. Tra le risate e queste visioni c’è una grande verità.

Progetti futuri che può anticiparci?

Questo film è in uscita quindi aspettiamo di vedere come va. L’11 uscirà in tutta Italia e speriamo che la gente torni al cinema.

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INTERVISTE

Reati contro i minori, intervista al ministro della Famiglia Eugenia Roccella (Video)

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Reati contro i minori, intervista al ministro della Famiglia Eugenia Roccella (Video) | Rec News dir. Zaira Bartucca
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INTERVISTE

Ddl Nordio, Caporale: «Non libera la magistratura dai suoi mali, ma colpisce la Giustizia giusta»

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Riforma Nordio, Caporale: "Non libera la magistratura dai suoi mali ma colpisce la Giustizia giusta" | Rec News dir. Zaira Bartucca

Il Ddl Nordio è forse l’eredità più consistente lasciata da Silvio Berlusconi. E’ infatti figlio di un modo preciso di intendere la Giustizia, le leggi, la magistratura. Per alcuni rappresenta l’ennesimo colpo inferto alla libertà di espressione, all’autonomia dei magistrati e allo stesso cittadino, che potrebbe essere maggiormente esposto a determinate fattispecie di reato che potrebbero essere depenalizzate. Ne abbiamo parlato con il giornalista Antonello Caporale.

Il giornalista Antonello Caporale

È davvero necessario abolire l’abuso di ufficio per tutelare quei sindaci che, a sentire la maggioranza, hanno le “mani legate”?

Io penso che la riforma viva di un bisogno ideologico. Anziché definire ulteriormente un reato che, è vero, è molto vago, lo hanno tolto di mezzo. Così facendo hanno mostrato il loro intento, che è quello di sminuire ulteriormente la magistratura.

Nordio è un ex magistrato.

Ma è come quei tabagisti che fumano, smettono poi finiscono con l’odiare le sigarette. Nordio è un magistrato ma odia i magistrati, ha utilizzato in modo massiccio le intercettazioni e da ministro le ha tagliate. Si è sempre proposto come l’alfiere della magistratura di destra ma dice che i magistrati fanno politica. La sua sembra una vita capovolta. C’è un’idea di fondo ideologica prima ancora che giudiziaria. E’ la stessa cosa che ho visto con la dichiarazione del lutto nazionale, che come sai viene dichiarata dal governo utilizzando la sua discrezionalità. In genere si fa per i martiri della mafia, ma in questo caso hanno voluto elevare la figura di Berlusconi.

Farà la fine di Craxi, un altro personaggio controverso che con il passare degli anni è diventato un’eroe nazionale. Si può dire che la Riforma Nordio sia un po’ l’ultimo lascito di Berlusconi, cioè la manifestazione ultima di un certo modo di intendere la Giustizia?

Possiamo anche dire per principio che i reati, la criminalità non esistono, ma restano comunque. Possiamo decretare sconfitta la mafia e la ‘ndrangheta, ma il pizzo c’è. Sono azioni temerarie, protervie e ingenue.

Prima hai parlato di intercettazioni. Secondo i detrattori del disegno di legge calerà una scure ulteriore sulla possibilità di informare liberamente.

Non sappiamo ancora cosa resterà e cosa verrà buttato della Riforma, che probabilmente sarà fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale. Ma già con il solo fatto di aver annunciato una stretta sulla intercettazioni sono stati lanciati due messaggi. Uno alla magistratura, a cui in pratica è stato detto mettetevi in fila e capite che il vento è cambiato, e uno all’informazione, a cui si tenta di dire attenzione, perché non puoi più osare come prima. La magistratura, comunque, non è esente da mali. Con la riforma non si sta liberando la magistratura del proprio conformismo, delle proprie convenienze e del fatto che ci sono magistrati che non lavorano e non sono equi, ma si sta riducendo l’ampiezza della libertà dei magistrati. Avranno più margine quelli più convenzionali e collusi, meno quelli coraggiosi che hanno voglia di fare. Se ci fai caso si parla sempre di magistrati di destra e di sinistra, ma mai di chi lavora bene e di chi lavora male.

Erano forse più questi gli aspetti da riformare.

Appunto, invece si sceglie di trascurarli. Nessuno si domanda perché uno ha fatto cinque processi e un altro 55, oppure perché con l’aumentare dell’organico delle Forze dell’Ordine non si riducono i reati. Dovremmo essere più sicuri, e invece? Immagino che non sia un lavoro certosino, organico, sistemico, ma che sia un lavoro occasionale. Faccio quello che lavora, fingo per la televisione e poi chi si è visto si è visto. Arresto chi so già che non può stare dentro, indago persone su cui non ho nulla. Ci sono poi le querele temerarie, come quelle che sono capitate a me e ad altri giornalisti, che sono azioni di parassitismo giudiziario che diventano lecite, invece non lo sono affatto. La lotta però non è contro questi mali, ma contro la Giustizia giusta.

Dal punto di vista politico pensi che la Riforma possa essere in qualche modo divisiva oppure c’è un’intesa che va al di là degli schieramenti politici?

C’è sicuramente intesa, altrimenti il codice penale non sarebbe così cavilloso. Le leggi le fa il Parlamento e c’è interesse a rendere i processi pieni di cavilli, possibilità e subordinate. La politica teme la magistratura, a volte perché esagera a volte perché è un potere che controlla.

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INTERVISTE

Il racconto della figlia del 72enne di Guardia Piemontese deceduto dopo ore di odissea

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Il racconto della figlia del 72enne di Guardia Piemontese deceduto per un caso di malasanità | Rec News dir. Zaira Bartucca

Antonio Caroccia era un 72enne di Guardia Piemontese, un paesino in provincia di Cosenza, in Calabria. Riferiscono i familiari, assumeva dei farmaci ma godeva di buona salute, era attivo e non era affetto da nessuna patologia. Il 5 marzo dello scorso anno avverte un dolore all’altezza dei reni. E’ tardo pomeriggio, Antonio è vigile, cosciente, i familiari sono preoccupati ma nessuno si immagina quello che sarebbe successo da lì alle ore successive, con una diagnosi iniziale sbagliata, “circa due ore e mezzo di attesa presso il pronto soccorso della clinica Tirrenia Hospital” – racconta una componente della famiglia – assenza di ambulanze, posti letto per ottenere i quali è necessario fare opere di convincimento, esami mai giunti a destinazione. Che sarebbe successo se i medici non avessero erroneamente diagnosticato un infarto e se il signor Antonio fosse giunto subito nel reparto di Chirurgia? Secondo i familiari, il decesso forse poteva essere evitato. Una delle due figlie, Valentina, ci ha spiegato le motivazioni alla base di questo convincimento.

Lei sta portando avanti una battaglia per il riconoscimento di un caso di malasanità che potrebbe aver causato il decesso di suo padre. Ha avuto risposte dalle Istituzioni?

Il 28 marzo ho inviato una PEC al ministero della Salute, alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Paola e Cosenza e al presidente della Regione Calabria in qualità di commissario ad acta della Sanità. Il ministero mi ha risposto l’11 aprile chiedendo alla Regione di relazionare sull’accaduto e domandando di mettermi a conoscenza degli esiti. La Regione ha scritto all’Asp di Cosenza limitandosi di fatto a fare da tramite, senza esprimersi sull’accaduto. Mi ha risposto allegando semplicemente i documenti ricevuti dall’Asp stessi, per giunta incompleti. Il tutto dopo circa tre mesi, durante i quali ho fatto numerosissimi solleciti telefonici e via mail.

Dal decesso di suo padre in poi è stata costretta ad appellarsi continuamente, oltre che alle istituzioni, alle strutture sanitarie coinvolte. Ha trovato disponibilità o chiusura?

Sostanzialmente dopo aver fatto più solleciti con le istituzioni ho trovato qualche forma di apertura. Il resto è stato un po’ sorprendente, anche per quello che riguarda le risposte del direttore della centrale operativa. Mi è capitato di fare presente il comportamento di un infermiere che con mio padre era stato sgarbato e poco professionale, ma la mia versione è stata messa in dubbio.

Sta dicendo che ha denunciato il comportamento di un infermiere e l’ospedale interessato non ne ha voluto saperne di più? Non è stata avviata nessuna indagine interna per comprendere se si era in presenza di una negligenza o di un disservizio?

No, assolutamente no. Anzi ho avuto l’impressione contraria, cioè che facessero da scudo a chi era intervenuto quella sera. Mi sono anzi sentita dire dal direttore della centrale operativa del 118 le testuali parole: “posto che ciò corrisponda a verità, come fa notare la scrivente signora Valentina Caroccia, rientra nei comportamenti personali del singolo, sicuramente censurabili, ma non perseguibili”.

Della vicenda che ha raccontato a Rec News ha fatto molta impressione l’atteggiamento di parte del personale sanitario coinvolto.

Abbiamo provato tanta rabbia, tanta tristezza e tanto dolore. Quando i sanitari sono venuti a casa per soccorrere mio padre non riuscivano a trovargli la vena e sgarbatamente gli davano dei comandi del tipo “Metti il braccio così”, strattonandolo. L’hanno poi portato giù sulla sedia a rotelle a petto nudo, faceva pure freddo perché era quasi sera. E’ stata mia madre a coprirlo. Alla Clinica Tirrenia Hospital doveva essere ricoverato, come testimoniano gli audio, su indicazione del medico del 118 intervenuto e del cardiologo dell’UTIC di Paola (la terapia intensiva cardiologica, nda), ma arrivati lì non volevano ricoverarlo, non ho capito per quale ragione. Il medico del 118 si è rivolto a mia madre e a mio zio dicendo: “Dovete insistere per fare uscire il posto”.

“Insistere per fare uscire il posto” è una frase strana.

Alla fine comunque è stato accettato presso il pronto soccorso della Tirrenia Hospital, ma quando i sanitari della stessa hanno ritenuto di dover trasferire mio padre presso l’ospedale Annunziata di Cosenza la clinica non era in possesso di alcuna ambulanza. Ho scavato per capire le motivazioni e chiesto spiegazioni, ma la clinica in tutta risposta mi ha scritto tramite legale facendo finta di non sapere che ero una parente diretta. Ho parlato anche con il vicedirettore della clinica Tirrenia Hospital perché in tutto questo è stato anche smarrito un esame che si chiama emogasanalisi che la clinica sostiene di aver effettuato e di aver consegnato all’ambulanza di Amantea che ha trasportato papà in un secondo momento. Sta di fatto che di quest’esame non c’è traccia.

Non si trova un esame di marzo del 2022?

Non si trova. Il vicedirettore sostiene che sia stato consegnato ma le cose sono tre: o non è stato effettuato, o è stato fatto e non è stato consegnato o è stato consegnato ed è stato smarrito. Al vicedirettore ho anche domandato come mai l’ambulanza non fosse disponibile e lui ha risposto che ne hanno solo una e che era impegnata per il trasferimento di un paziente leucemico a Reggio Calabria. Pensare che la Tricarico è l’unica clinica della costa tirrenica cosentina ad avere l’emodinamica. Mio padre del resto non doveva neppure essere lì, perché la diagnosi inziale di infarto si è poi rivelata sbagliata.

Negli audio vagliati da Rec News si sentono anche i sanitari che rispondono flemmatici e le attese lunghe intervallate dalla Primavera di Vivaldi…

Infatti si nota subito l’incapacità di comunicare e gestire l’urgenza. Si passano il telefono di persona in persona. Mancavano mezzi, preparazione e c’era pure chi rispondeva scocciato alla richiesta di intervento.

Suo padre è deceduto dopo un’Odissea durata ore e ore.

Era un codice rosso. Avrebbero dovuto mobilitarsi subito, non avere quell’atteggiamento rilassato passandosi il telefono di persona in persona.

C’è stato anche quel problema “di connessione” che ha impedito a un esame di arrivare a destinazione.

Quando si fa l’ECG a casa, a esito ottenuto c’è il consulto tra il medico che è sul posto, del medico che è in centrale operativa e del medico di turno all’UTIC di competenza, in questo caso l’UTIC di Paola. Però alla centrale operativa del 118 l’esame non è mai arrivato per mancanza di linea. E’ arrivato però, come documentano gli atti, all’UTIC di Paola, quindi gli unici due che hanno avuto modo di confrontarsi sono stati il medico del 118 che è venuto qua a casa e il cardiologo. Il medico non è stato assolutamente in grado di gestire la situazione. Mio padre era a casa lucido e cosciente, avvertiva un dolore all’altezza dei reni ma gli è stato diagnosticato un infarto. Quando è stato trasportato sulla seconda ambulanza già non rispondeva e secondo i referti aveva già i valori sballati. Dopo ore di attesa, due ore circa delle quali presso la Tirrenia Hospital, è deceduto.

Mi diceva che in un referto clinico anziché scrivere “sottorenale” hanno scritto “soprarenale”. Sono questioni di lana caprina oppure ha senso porsi delle domande?

Sì, ha senso porsi il quesito e stiamo seguendo anche tutta la parte medica per comprendere meglio come si sono svolti i fatti. Sappiamo che è arrivato in Chirurgia all’Annunziata in condizioni già critiche e che i medici hanno innestato le protesi. L’operazione è durata circa due ore e mezzo e da come si legge dalla cartella clinica ci sono stati due arresti cardiaci, uno dei quali ripreso con il defibrillatore. Hanno provato a recuperarlo, ma all’una e trenta di notte è stato constatato il decesso.

Nel caso di suo padre la diagnostica appare mancante o errata.

Sì, non gli è stata fatta la TAC a contrasto che avrebbe dovuto evidenziare le rotture subentrate che inizialmente non c’erano, e poi gli è stato diagnosticato, sbagliando, un infarto. Mio padre aveva bisogno di essere trasferito immediatamente, e sottolineo immediatamente, presso la struttura dove è stato operato, invece è stato perso inutilmente tanto tempo e non c’erano neppure i mezzi per effettuare il trasporto.

La prima diagnosi di suo padre è avvenuta tramite telemedicina, però il referto non è mai giunto a destinazione per un problema di connessione. Il timore è che determinate procedure macchinose che coinvolgono tanto personale sanitario e tante unità distanti tra loro, possano mettere in pericolo il paziente. Se si spezza un anello della catena, i rischi possono superare i vantaggi.

Ma se alla fine mi sono sentita dire “Ritieniti fortunata che quella sera c’era il medico con l’ambulanza”, perché la prima ambulanza è venuta 5 minuti dopo la chiamata, ma solo perché stava facendo rifornimento lì vicino. Mi sono vergognata per loro a sentire frasi del genere. Per riuscire a fare gli accessi agli atti che riguardano il decesso di mio padre mi sono trovata di fronte a telefoni sbattuti in faccia. Se scegli di fare il medico devi avere una vocazione, una passione, ma se poi non hai professionalità e sei perfino disumano, è meglio che cambi mestiere. Ora non c’è solo il dolore, ma anche la rabbia.

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