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Pochi a queste latitudini lo sanno, ma esiste un episodio gravissimo della storia recente – nemmeno poi tanto lontano dall’Olocusto – che falciò milioni e milioni di vite nel silenzio generale. Un silenzio che, inspiegabilmente, dura ancora oggi. Si tratta dell’Holodomor ucraino (Голодомор), una terribile carestia organizzata che non ha eguali nella storia. Della fame in Africa si sente parlare spesso, delle condizioni privative nei campi di concentramento, in continuazione. Sulla “raccolta dei bambini” o sui neonati che succhiavano latte dal seno delle madri morte, invece, non una parola.

Eppure tra il 1932 e il 1933 i morti furono circa 15 milioni. Circa cinque milioni, per instaurare un parallelo, furono gli ebrei vittime dell’Olocausto, che rappresentano meno della metà delle morti perpetrate dal regime nazista. Le vite bruscamente interrotte dall’Holodomor furono dunque più del triplo. La cifra è desunta da una testimonianza storica fornita dall’Ambasciata in occasione dell’anniversario della ricorrenza, il 25 novembre.

Si tratta di una lettera datata 31 maggio 1933 del console italiano Sergio Gradenigo in visita in Ucraina (sotto). Qui si parla, tra l’altro, delle “cosiddette atroci persecuzioni degli ebrei” e di “ebrei grassi e ben nutriti”. Frase spiazzante, ma che dovrebbe far riflettere. Anche la storia è continuamente rivista, riscritta, piegata ai tornaconti politici. In un siffatto quadro desolante va ascritta l’assurda abitudine, di anno in anno, di intavolare speciali, film e dibattiti sul genocidio degli ebrei, dimenticandosi dei 16 milioni di ucraini appena menzionati, dei milioni di meridionali italiani sacrificati per l’Unità d’Italia, degli armeni e, ancora oggi, dei milioni di Cristiani crocifissi a tutte le latitudini.

Kharkov, 31 maggio 1933
La fame e la questione ucraina 
Alla R. AMBASCIATA D’ITALIA
MOSCA 


La fame continua a menar strage cosi imponente fra la popolazione, che resta del tutto inspiegabile come il Mondo rimanga indifferente di fronte a simile catastrofe e come la stampa internazionale, cosi sollecita nell’invocare la riprovazione universale contro la Germania, rea di cosiddette “atroci persecuzioni degli Ebrei”, taccia pudicamente di fronte a questo macello, nel quale proprio gli Ebrei hanno una parte molto larga, anche se non di primo piano.

Non vi è dubbio infatti: 1) che questa fame derivi principalmente da una carestia organizzata e voluta “per dare una lezione al contadino”; 2) che non un solo ebreo si trova fra i colpiti da essa e che al contrario essi si trovano tutti grassi e ben nutriti, sotto le fraterne ali della Gepeù. Il “materiale etnografico” va cambiato, ha detto cinicamente un ebreo, pezzo grosso della locale Gepeù. Oggi si può intravvedere la sorte ultima di questo “materiale etnografico”, destinato ad essere sostituito. Per quanto mostruoso ed incredibile possa apparire un simile proponimento, esso deve tuttavia venir considerato come reale ed in piena attuazione.

(…)Si è certamente destinati a liquidare il problema ucraino entro pochi mesi, col sacrificio di 10 o 15 milioni di anime. Nè questa cifra sembra esagerata. Sono del parere che essa sarà superata e che probabilmente è già raggiunta. Questo flagello, che sta falciando milioni di persone e distrugge l’infanzia di un intero popolo, colpisce infatti soltanto l’Ucraina, il Kuban ed il medio Volga. Altrove è molto meno sentito o non sentito affatto. La rovina comincia dopo Kursk, ha detto lo scrittore Andreiew venuto giorni fa da Mosca (…).


Credo opportuno ancora esporre un quadro episodico della situazione:
Il tovarisch Frenkel, membro del “Kollegium” della Gepeù ha confidato a persona da noi conosciuta, che ogni notte vengono raccolti in Kharkov circa 250 cadaveri di morti per fame sulla strada. Per parte mia posso testimoniare di aver visto dopo la mezzanotte passare davanti al consolato dei Camions, con un carico di 10/15 cadaveri. Poiché accanto al Regio Consolato vi sono tre grandi caseggiati in costruzione, il camions ha sostato davanti alle staccionate e due incaricati, muniti di forconi da fieno sono entrati a cercare i morti.

Ho visto raccogliere da terra con detti forconi sette persone e cioè due uomini, una donna e quattro bambini. Altre persone si svegliarono e sparirono come ombre. Uno dei due addetti a questo lavoro mi disse: Da voi non avete questo, vero? Al Bazar il 21 mattina i morti erano raggruppati come mucchi di stracci, nella mota e nello sterco umano, lungo la palizzata che limita il piazzale verso il fiume. Ce n’erano una trentina. Il 23 mattina ne ho contati 51. Un bambino succhiava il latte dalla mammella della madre morta, dal viso color grigio.

Nella Pusckinskaia (nome di una via, ndr) scendevo un pomeriggio verso il centro. Pioveva. Tre besprisorni (bambini poveri, ndr) passarono davanti a me; finsero di accapigliarsi. Uno ricevette uno spintone ed andò a finire contro una donna che portava una pentola di borsch (zuppa), raccolta dentro un fazzoletto. La pentola andò per terra e si spezzò. Il colpevole fuggi e gli altri due raccattarono con le mani, tra la mota la zuppa e la ingollarono. Un poco ne misero in un berretto, per il terzo. Nella stessa Pusckinskaia, a poche decine di metri dal Consolato, una contadina stette tutta la giornata con due bambini, accucciata in un canto del marciapiedi, come tante altre decine di mamme, poco più su, poco più giù della via.

Teneva la solita scatola di latta, vecchia scatola di roba in conserva, privata del coperchio, nella quale di quando in quando qualcuno gettava un copek (centesimo). A sera con un gesto allontanò da se i due bambini ed alzatasi si gettò contro il tramvay che scendeva a tutta velocità. Mezz’ora dopo ho visto un dvornik (spazzino) che spazzava via le budella della disgraziata. I due bambini erano sempre li e guardavano. 

Soltanto da una settimana è stato organizzato il servizio per la raccolta dei bambini abbandonati. Infatti oltre ai contadini che affluiscono alla città, perché nella campagna non hanno più speranza alcuna di poter sopravvivere, vi sono i bambini che vengono portati qua e quindi abbandonati dai genitori che se ritornano al villaggio a morirvi. Essi sperano che in città qualcuno si prende cura della loro prole. Fino ad una settimana fa essi giacevano però piangenti ad ogni cantone di casa, sui marciapiedi, dappertutto. Si vedevano bambine di 10 anni che facevano da mamme a bambine di quattro o tre. La notte arrivata le coprivano col proprio scialle o mantello e dormivano accucciate per terra, col vasetto di latta accanto, per l’eventuale elemosina. 

Da una settimana sono stati mobilitati dei dvornik (spazzini), in grembiule bianco, che girano la città, raccolgono i bambini e li portano al più vicino posto di polizia, spesso fra scene di disperazione, urli, pianti. Davanti al Consolato c’è un posto di polizia. Ad ogni momento si sentono grida disperate: Non voglio andare alle baracche della morte, lasciatemi morire in pace.Verso mezzanotte cominciano a trasportarli con i camions alla stazione merci di Severno-Doniez. Colà vengono concentrati anche i bambini che vengono raccolti nei villaggi, che vengono trovati nei treni, le famiglie di contadini, gli isolati più vecchi, che vengono rastrellati durante il giorno nella città.

Vi sono dei sanitari (sono gli eroi del giorno, mi ha detto un medico; hanno avuto fino ad oggi il 40% di morti per tifo contratto nell’opera che prestano), che fanno la “cernita”. Quelli che ancora non sono gonfi e presentano qualche garanzia di potersi rimettere, vengono inviati alle baracche della Holodnaia Gora (una montagna), dove entro capannoni, su paglia, agonizza una popolazione di circa 8000 anime, in grandissima parte bambini. Un medico addetto mi ha raccontato, che ricevono del latte e della zuppa, ma naturalmente scarsamente e saltuariamente “come si può”. Vi sono da 80 a 100 morti al giorno. “Un medico russo non può aver più cuore sensibile; ha detto, ma tuttavia io passa da una crisi di lacrime ad un’altra”.


I gonfi vengono avviati con un treno merci, verso la campagna ed abbandonati a 50/60 km dalla città, perché vi moiano non veduti. I vagoni, a mano a mano che vengono colmati, vengono sprangati. Spesso accade che il treno sia completo dopo un paio di giorni da che i vagoni sono chiusi. Qualche giorno fa un addetto al treno, passando accanto ad uno di questi vagoni sentì gridare; si accosto e senti un disgraziato che da dentro supplicava di liberarlo, perché l’odore dei cadaveri vi era divenuto insopportabile. Aperto il vagone si trovò che egli solo era ancora vivente; allora fu levato e messo a morire in altro vagone, dove erano ancora vivi i rinchiusi.

All’arrivo sul posto dove li scaricano, aprono grandi fosse e levano dai vagoni tutti morti. Mi si assicura che non si guarda tanto per il sottile e che sovente si vede il caduto nella fossa ridestarsi e muoversi in un ultimo guizzo di vitalità. Ma l’opera dei becchini non si interrompono per questo e lo scarico continua. Questi particolari li ho da sanitari e ne posso garantire l’autenticità. La prigione della Holodnaia Gora ha in media 30 morti al giorno.Il villaggio di Grahovo, a circa 50 km di distanza da Kharkov, di 1300 abitanti che aveva, ne conta oggi 200 circa. 

Il distretto di Poltava sembra il più tremendamente colpito, peggio ancora di quello di Kharkov. In Poltava città anche i medici cominciano a gonfiare per denutrizione. Allego dei campioni di polvere di radici, con la quale si confeziona una poltiglia legnosa nella campagna di Belgorod. Davanti alla casa del Sig. Ballovich un vecchio, dall’aspetto distinto, si è improvvisamente curvato su un mucchio di trucioli e ne ha inghiottito una manciata. Allego una fotografia di bambino giunto qua con una famiglia di origini tedesche, per essere rimpatriata da questo Consolato Generale di Germania, dal medio Volga. L’aspetto di vecchio decrepito è uno dei più frequenti che si riscontrino anche qui in Kharkov. 

Da ultimo cito il suicidio del generale dela Gepeù Brozki, che il 18 corr. di ritorno da una ispezione nella compagna, dopo una scena tremenda con Balizki, nella quale gridò ripetutamente che questo non è comunismo ma “orrore” e che per lui ne aveva abbastanza di tali ispezioni e che “ordine non sarebbe andato più a mettere in nessun posto”(pare avesse dovuto operare una repressione ), si è tirato una pistolettata nella testa. Quello di Khvilovi e di Hirniak, per cause analoghe. Questi due ultimi avendo un riflesso specialmente interessante politicamente, sono argomento di rapporto a parte. 

Infine un pezzo grosso del Governo locale e del Partito, del quale non ho potuto conoscere il nome, è impazzito dopo una ispezione nella campagna ed hanno dovuto mettergli la camicia di forza. Anche lui ha dato in ismanie gridando. (…). Col massimo ossequio
Il Regio Console
firmato Gradenigo

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OPINIONI

Alluvione in Emilia, l’ipocrita circo mediatico per nascondere la verità

E’ un bilancio da guerra quello dell’ultima alluvione in Emilia Romagna. Un copione destinato a ripetersi ancora e ancora, una volta in questo pezzo d’Italia e una volta in quell’altro

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Alluvione in Emilia, l'ipocrita circo mediatico per nascondere la verità | Rec News dir. Zaira Bartucca

Quattordici morti e 36mila sfollati. Abitazioni, strutture, aziende, fabbriche e campi da coltivazione distrutti, con il fango che inghiotte tutto e porta con sé devastazione e precarietà. E’ un bilancio da guerra quello dell’ultima alluvione in Emilia Romagna. Un copione destinato a ripetersi ancora e ancora, una volta in questo pezzo d’Italia e una volta in quell’altro, perché i miliardi stanziati dai vari governi per mitigare gli effetti del dissesto idrogeologico – sia esso frutto di comportamenti umani irrispettosi o di eventi naturali – non vengono mai impiegati dove servono.

Costruzione di dighe di contenimento, pulizia degli argini di fiumi e torrenti, prevenzione dell’abusivismo e suoi rimedi: nonostante le iniezioni continue di denaro (tanto), è ormai abitudine consolidata trascurare tutto, perché tanto poi a danni fatti si mette in moto la solita macchina dell’emergenza. Dopo l’acqua iniziano a piovere i miliardi, inizia il “magna magna” di chi controlla il business della solidarietà e si fa a gara a chi è più bravo a dire la frase a effetto per sostenere le popolazioni colpite, a chi fa la donazione più cospicua o a chi si intesta il gesto più eclatante.

Tutto doveroso, sia chiaro, ma non saranno certo 900 euro a testa o la premier in stivali a riportare in vita quattordici persone, oppure a restituire ai romagnoli le attività andate distrutte, forse per sempre. Senza contare che il circo mediatico che si è attivato fin da subito è tuttora teso a nascondere quello che conta davvero: le responsabilità. Quelle che negli ultimi anni – stando ai dati pubblicati da Legambiente – hanno fatto registrare dal 2010 a oggi 510 eventi alluvionali (per contare solo quelli censiti), con i relativi danni a cose e persone.

Si poteva evitare tutto questo? Di chi è la colpa? Cosa è mancato e continua a mancare? Cosa non hanno fatto e cosa hanno sbagliato gli enti che negli anni hanno amministrato i territori colpiti? E ancora: come evitare che catastrofi del genere si verifichino di nuovo? Perché se le alluvioni in Italia sono diventate la “nuova normalità” – per rubare un’espressione usata in epoca covid – si deve pensare che esista una certa volontà o quantomeno una qualche tolleranza verso questi fenomeni assolutamente prevedibili ed evitabili. Si sa che prima o poi pioverà, e oggettivamente esistono modi anche sofisticati per verificare se il territorio è pronto a gestire eventi piovosi di una certa portata. Se non lo è, basta intervenire, senza aspettare nuovi danni.

Scomodare il cambiamento climatico o “la siccità che rende i terreni impermeabili” non basta più, sono scuse che non possono reggere a lungo e soprattutto non possono bastare a chi ha perso tutto, tanto più che se le alluvioni in Europa sono un costume nazionale prettamente italiano un motivo ci deve essere.

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OPINIONI

Non convince il presidenzialismo, né il premierato

“In una democrazia l’importante non è la governabilità, ma la rappresentanza” – di Vincenzo Musacchio

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Né presidenzialismo, né premierato. In una democrazia l'importante non è la governabilità ma la rappresentanza | Rec News dir. Zaira Bartucca

L’Italia è una Repubblica parlamentare con una forma di governo dove gli elettori votano i rappresentanti del Parlamento, i quali poi nomineranno il Presidente della Repubblica. Quest’ultimo nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, che presiede il Governo. Nella Repubblica presidenziale gli elettori (cioè il Popolo) eleggono direttamente il Presidente della Repubblica, il quale diventa sia Capo dello Stato, che del Governo. Un tipico esempio di questa forma di governo è in vigore negli Stati Uniti. Il Premierato è una “pseudo-forma di governo” non ben definita basata sulla legittimazione popolare del Capo di Governo (Premier).

Quale che sia il metodo di designazione di quest’ultimo e la qualificazione costituzionale del ruolo, ciò che determina la natura della sua leadership (e degli assetti di regime politico che ne conseguono) è il tipo di rapporti di potere che lo legano al Governo, da una parte, e al Parlamento, dall’altra: per cui si parla di premierato “forte” o “debole”, a seconda del modo e del grado di autonomia e di supremazia nel rapporto Governo-Parlamento. In Italia una forma di premierato forte l’abbiamo vissuta già più volte.

Quale delle tre forme di governo, presidenziale, parlamentare o premierato, sia più idonea ad avvicinare l’Italia ai Paesi in cui la democrazia funziona da secoli? La mia scelta cade sulla forma parlamentare. È l’opzione più democratica e più italiana anche se non ha espresso mai a pieno le sue potenzialità per le degenerazioni dei partiti che da centro di interessi pluralistici sono divenuti poi partitocratici originando una precaria governabilità e crisi politiche frequenti.

Una democrazia rappresentativa, per funzionare, potrebbe anche essere bipartitica. Del tema, del resto, ne discussero anche i nostri Padri Costituenti con l’obiettivo di semplificare il quadro politico frammentario. Mi appello a tal proposito a Piero Calamandrei che in sede Costituente così disse: «Come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti, ma che deve funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità di partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione?».

Ora il centrodestra, forte di un ampio consenso popolare, ci riprova con l’opzione presidenzialista, ma senza porre pregiudizi o preclusioni su altri modelli di riforma che mettano comunque i cittadini al centro delle scelte. Io sono per il legame diretto tra elettore ed eletto con le preferenze e con un bipartitismo alla inglese per superare definitivamente la stagione degli esecutivi che sovrastano il potere legislativo. Se riforma ci sarà spero sia con una maggioranza dei due terzi del Parlamento, evitando il rischio della demolizione con i referendum confermativi. La vera forza di una democrazia a mio parere non si gioca sulla governabilità ma sulla rappresentanza.

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OPINIONI

La storia recente ci insegna che i poteri del premier vanno limitati, non ampliati

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La storia recente ci insegna che i poteri del premier vanno limitati, non ampliati | Rec News dir. Zaira Bartucca

I condizionatori di Draghi (da posporre alla Pace), gli inseguimenti di chi fa jogging promossi da Conte e i nostalgici vicini alla Meloni avrebbero dovuto quantomeno insegnarci una cosa: non bisogna ampliare i poteri del premier ma, semmai, limitarli. Invece l’azione dei governi che si succedono è tutta tesa a limitare le prerogative del Parlamento, di fatto annullando la rappresentanza politica. Dimenticando, spesso, che la divisione dei poteri è condizione necessaria in democrazia, come racconta lo scacchiere internazionale messo a ferro e fuoco in Paesi che hanno un uomo solo al comando.

Aspetti che non sembrano sfiorare il governo, che ha annunciato che sul premierato andrà avanti comunque, opposizione o non opposizione. Ma allora a che servono i tavoli che si apriranno domani? E perché consegnare la parola ai cittadini solo alla fine di tutto l’iter, per giunta per mezzo dell’ennesimo Referendum farsa?

Si tenta di concentrare nelle mani di un unico soggetto un potere sempre crescente, e per fare cosa? Non per emanciparsi dall’Unione europea, tantomeno per ridare al Paese la sua sovranità – concetto che Fratelli d’Italia ha dimenticato una volta giunto al governo – o la crescita economica che merita. La preoccupazione è che il semipresidenzialismo, il premierato o il sindaco d’Italia – comunque si chiami il tentativo di mettere da parte la Repubblica parlamentare – possano essere solo l’occasione per calcare la mano su tutta una serie di cose che non si riescono ad attuare per una serie di (ovvie) resistenze da parte della società civile.

Fa pensare – e discutere – che a volere più poteri sia un governo che ha un ministro dell’Interno che crede ciecamente nei presunti pregi del riconoscimento facciale, e che ha un sottosegretario all’Innovazione che lavora alacremente per portare a termine quanto avviato dai governi Conte e Draghi. Che, per di più, ha finanziato la corsa agli armamenti di uno Stato estero, violando quel “L’Italia ripudia la guerra” di costituzionale memoria. Cosa succederebbe in un ipotetico futuro in cui la Camera e i parlamentari saranno acqua passata, in cui gli enti come Regioni e Comuni saranno simulacri svuotati di significato e basterà una firma del super-premier (magari con la contro-firma del super-presidente della pseudo-Repubblica) per prendere le decisioni che contano davvero? Come sarebbero gestiti eventuali periodi di emergenza, che già di per sé consegnano nelle mani del premier prerogative ampliate? Domande che ancora non sono entrate nel dibattito ma da cui si dovrebbe partire – a modesto parere di chi scrive – prima di giungere a decisioni drastiche e affrettate.

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Un altro atto di vandalismo compiuto dai cosiddetti attivisti per l’ambiente

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Un altro atto di vandalismo compiuto dai cosiddetti attivisti per l'ambiente | Rec News dir. Zaira Bartucca

Palazzo Vecchio, simbolo dell’architettura civile trecentesca fiorentina, imbrattato di arancione e la Fontana della Barcaccia di Roma inquinata con del liquido nero. Si difenderebbe così l’ambiente secondo gli “attivisti” di un collettivo che da settimane compie atti di vandalismo in giro per l’Italia. Attacchi ai beni culturali nazionali che con la protezione delle risorse non c’entrano nulla, come dimostra lo spreco di acqua e solventi che segue questo tipo di azioni dimostrative e che serve a ripristinare – per quanto possibile – i monumenti oggetto di deturpazione.

“Difendere l’ambiente”, dunque, inquinando le fontane, proteggere il paesaggio rovinando i palazzi storici, magari per fare in modo che le nuove generazioni (quelle che si scomodano tanto spesso) non ne possano fruire affatto. Una schizofrenia generalizzata che fa il paio con un ambientalismo fanatico e pericoloso che sta provocando danni tangibili e presto quantificabili, pensando sul bilancio di Comuni già in rosso. Dopo i danni provocati alla Fontana della Barcaccia, i cosiddetti attivisti rischiano ora una denuncia per danneggiamento.

Sulla vicenda si è espresso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: “L’ennesimo, gravissimo, episodio di questa mattina che ha colpito uno dei monumenti simbolo di Roma, la Fontana della Barcaccia di Piazza di Spagna, è la goccia che fa traboccare il vaso. È ora di dire basta: siamo davanti ad una sistematica azione di vandalismo del nostro patrimonio artistico e culturale che non c’entra assolutamente nulla con la tutela dell’ambiente. Chi danneggia i nostri beni culturali non può passarla liscia e va punito severamente. Anche per questo stiamo studiando una norma che faccia pagare ai responsabili di questi danni gli interventi necessari per il ripristino dei luoghi, spesso costosi perché richiedono specialisti e attrezzature adeguate”. Dello stesso tenore quanto affermato dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri: “Queste persone dovranno rispondere di quanto hanno fatto. Un atto illegale, dannoso e sbagliatissimo. E’ giusto che rispondano sulla base della legge e bisogna essere severi”.

Le reazioni della politica, comunque, rimangono piuttosto timide, e nessuno che si domandi com’è possibile che si riesca a compiere gesti simili eludendo la sorveglianza di chi è preposto al controllo dell’integrità dei monumenti storici.

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