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Un posto riservato sull’imbarcazione di Caronte, il traghettatore dell’Ade dell’inferno dantesco. Si naviga in acque piene di sigle e organismi, di ambiguità e di piani mondialisti. Si passano i gironi – cinque – e la punizione non spetta ai peccatori ma a chi (il cittadino, il contribuente, l’elettore) dall’azione dei peccatori è danneggiato. E’ un viaggio articolato quello che fa fare Francesca Totolo con Inferno Spa, edito da Altaforte Edizioni. Ne fanno parte i professionisti dell’accoglienza, speculatori internazionali noti e meno noti, uomini di affari e rappresentanti politici. Un esercito di faccendieri impiegati in ogni settore (stampa compresa), impegnati nella cancellazione dei confini, delle culture, delle identità.

Inferno Spa è un titolo che incuriosisce. Cosa c’è di così “infernale” nel business dell’accoglienza e in quanto vi gravita intorno?
Ci sono strutture e piani che si intersecano tra di loro. Nel libro ne metto in evidenza cinque con altrettanti capitoli. Si inizia con quello sulla filiera dell’immigrazione in generale e si scende poi più nel dettaglio, con le Ong del Mediterraneo. Il terzo capitolo è dedicato ad associazioni come l’Asgi, quella che ha fatto ricorso in Tribunale per far ottenere il bonus bebè alle migranti. C’è poi una parte interamente dedicata alla stampa e a testate come l’Internazionale, o alle organizzazioni interne all’Odg direttamente finanziate da Soros come Redattore sociale e Carta di Roma. Chiudo con la politica, concentrandomi su Pd e Radicali. Ogni parte, poi, si apre con un’introduzione che fa riferimento ai gironi danteschi.


Qual è la particolarità di Carta di Roma? 
Soros entra nel mondo delle organizzazioni italiane proprio tramite Carta di Roma. L’associazione che fa capo all’Odg e che come sappiamo si impegna a suggerire come scrivere e come parlare ha dei metodi che sono gravemente lesivi della libera informazione. Diversi termini sono banditi, e del resto in occasione del suo decennale Carta di Roma ha ribadito il proposito che non si deve utilizzare il termine “migranti”. Però così si omettono informazioni che possono essere importanti.

Sembra un atteggiamento censorio. Poi, nei fatti, si scontra con le marcature della stampa mainstream: l’italiano che commette crimini, per esempio, non è solo tale, ma anche romano, napoletano…
Si applicano due pesi e due misure. Non bisogna demonizzare ma nemmeno omettere dati importanti. La cronaca dovrebbe essere quanto più imparziale possibile. Non bisogna forzare né da un lato né dall’altro. C’è, comunque, un dato piuttosto indicativo che riguarda i casi di violenze commessi da stranieri. Tra il 2014 e il 2018 la percentuale di questo tipo di reati è addirittura triplicata.

Eppure gli arrivi sono diminuiti. Di chi è la “colpa”?
Sono le ripercussioni dell’immigrazione di massa. Un recente report dei servizi segreti mette in guardia dall’avanzata della mafia nigeriana. Non viene chiamata così ma c’è, è evidente, è di questo che si tratta. E’ l’effetto diretto di un’immigrazione che non è stata supportata da politiche adeguate.

Sugli immigrati anche grazie al tuo lavoro la coltre di nebbia si sta diradando. Sull’Odg, che gode dell’ovvio silenzio della categoria e sul placet della politica che ha solo annunciato l’abolizione senza portarla a termine, il lavoro da fare è tanto. Ne parli in Inferno Spa: che c’entra un ordine professionale che dovrebbe occuparsi della tutela degli iscritti con questo sistema di scatole cinesi?
E’ un establishment elitario. Basta vedere in che modo ha reagito di fronte al proposito di abolire i fondi all’editoria. Mi capita di confrontarmi con giornalisti che lavorano fuori: all’estero quello che accade in Italia sembra assurdo. Io comunque non sono giornalista quindi in qualche modo me ne chiamo fuori.

Infatti il tuo caso di “non giornalista” è emblematico. I giornalisti “commerciali” sembra si dedichino più all’avanspettacolo che all’informazione. Chi poi non è giornalista si trova a fare quel lavoro di indagine di cui si sente sempre più la mancanza.
Io nasco come addetto stampa. Ho iniziato interessandomi di immigrazione e di bilanci utilizzando i metodi della ricerca scientifica. Ho studiato e da qui è nato il mio lavoro. Una volta mi finsi laureanda per avere informazioni economiche e rimasi sconvolta nell’assistere alla campagna di fango che era stata messa in piedi dopo. Volevo documentare una vicenda e ho utilizzato degli strumenti di indagine comuni, che c’è di strano?

Nulla, si direbbe. La macchina del fango non si è azionata solo quella volta: la questione dello smalto com’è andata realmente? Qualcuno ha persino chiamato in causa Photoshop…
Macché. Una sera stavo guardando il tg5 e ti vedo questa naufraga, Josefa, che sbarca con lo smalto rosso. All’epoca Open Arms non aveva ancora pubblicato nulla sull’argomento. Mi dico: o lo smalto è stato messo dai trafficanti o dai giornalisti che erano a bordo come Annalisa Camilli dell’Internazionale. Che poi io ho fatto richieste varie volte di far parte dell’equipaggio e sono state tutte respinte. Si è parlato di voler rasserenare la donna, che poi è stato detto fosse in ipotermia: non mi sembra che le condizioni cliniche si sposino tanto bene con i cosmetici. Se una va in ospedale, la prima cosa è proprio togliere traccia di qualunque cosa, dai trucchi agli smalti.

Hai citato l’Internazionale anche a inizio intervista. Cosa c’entra con gli organismi che menzionavi prima?
Fa parte dei network europeo Eurozine, un insieme di riviste culturali che utilizza fondi Creative Europe Desk. Il direttore è Giovanni De Mauro, figlio di Tullio, ex ministro dell’Istruzione del governo Amato II. C’è un filo, insomma, che lega tutto quanto. L’Internazionale organizza anche un festival a Ferrara finanziato da Medici senza frontiere dove si dà appuntamento tutta la crème filo-immigrazionista. Potrà mai fare informazione imparziale a queste condizioni?

E Redattore sociale?
E’ un’altro veicolo di propaganda. E’ presieduto da Vinicio Albanesi, che gestisce contemporaneamente dei centri di accoglienza sparsi sul territorio. Per la comunità riceve dei fondi ma è lecito pensare che tutto finisca in un’unico calderone. Sembra si tratti di un bel conflitto di interessi. Un altro problema è che un lettore non sa di quello che c’è dietro, rimane inconsapevole e in qualche modo fregato per il discorso di prima sull’imparzialità.

Sembra di capire che l’abolizione dell’Odg sia solo una delle iniziative da mettere in campo per risolvere il vasto problema dell’informazione interessata, chiamiamola.
Alla Camera tramite il Centro Machiavelli si sta cercando di far passare delle misure che potrebbero permettere una maggiore trasparenza. Da qui potrebbero partire tante cose. Il problema di fondo è che queste organizzazioni ricevono fondi da tutte le parti. La fondazione Open Society è forse l’esempio più lampante, e del resto lo stesso Soros ha ammesso che il suo sia un progetto politico. Prendono soldi dai governi, dalle Nazioni Unite, dall’Unione europea ma sono nate come organizzazioni non governative. Dovrebbero reggersi sulle proprie gambe con donazioni private, ma non lo fanno. Nei fatti sono spesso il braccio operativo di determinati governi. In Siria per esempio le organizzazioni che hanno invaso sono finanziate da Usaid. In Ungheria si è tentato di approcciarsi al problema con il pacchetto Stop Soros.

Nell’Italia che non sta messa meglio in fatto di organizzazioni guidate da logiche manipolatorie si potrebbe pensare a un pacchetto simile?
Certamente, non esistono ostacoli di nessuna natura all’approvazione di misure del genere. Bisognerebbe tra l’altro chiedere alle organizzazioni di essere trasparenti e di rendere noti i propri bilanci. Nel diritto anglosassone questo è comunemente contemplato; in Italia, dove persino le onlus tengono nascosto quanto fanno invece che documentarlo punto per punto, no.

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COME FARE PER

Diventare “creatori di business in 7 shot”

Nasce dalla penna di un “imprenditore seriale” la guida che contiene molte dritte per destreggiarsi in un periodo di crisi atipico come questo

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Diventare "creatori di business in 7 shot" | Rec News dir. Zaira Bartucca

Nasce dalla penna di un “imprenditore seriale” il libro “7 shot per creatori di business”. Enrico Pisani – già libero professionista del mondo delle Tlc che gravita nel mondo delle startup digitali – lo ha scritto pensando “alle paure e ai blocchi che si hanno all’inizio di una carriera”. Il risultato è una guida, un manuale scorrevole dove si trovano molte dritte per destreggiarsi in un periodo di crisi atipico come questo. Il segreto secondo Pisani è abbandonare l’idea del “monobusiness”, reinventandosi di continuo e tentando di capire le dinamiche del mercato.

“Per l’imprenditore che non è abituato a rischiare o che non ha mai iniziato a creare il proprio business – avverte l’autore – sarà dura mandare giù questi problemi.  Il libro è per tutti quelli che almeno una volta nella vita hanno detto o si sono sentiti dire queste frasiMi mancano i capitali, Non ho tempo, Non voglio correre rischi, Non conosco le persone giuste, Non so concretamente che fare,  Non ho le competenze, È troppo tardi, non so se è il momento adatto“.

Il pensiero corre, nelle pagine del testo, a tutti quei titolari di impresa e liberi professionisti che “vedevano i loro sogni arenati in una SRL o una Partita Iva in fase di stallo. Anche io – racconta Pisani – sono stato giovane, impaurito, senza soldi da investire e con tante idee, ma credo che se avessi avuto questo libro nelle mani, avrei iniziato a fare business molto prima e senza troppe preoccupazioni. Vorrei davvero poter vedere meno persone disilluse, e più persone animate dai loro sogni. Magari questo libro riuscirà a “risvegliare” qualcuno, sarebbe bellissimo.” 

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COVID

Il grande “equivoco”. Il volume che spiega come si è arrivati (sbagliando) a chiudere il Paese

“La sovranità del diritto tiranno – L’illusione del lockdown” è il volume dell’avvocato edito da Albatros

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Il grande "equivoco". Di Lorenzo racconta come si è arrivati (sbagliando) ad adottare il lockdown | Rec News direttore Zaira Bartucca

E’ un saggio ricco di spunti di riflessione e di riferimenti precisi quello che Angelo Di Lorenzo – avvocato penalista – ha pubblicato per Albatros. “La sovranità del diritto tiranno – L’illusione del lockdown” inizia con una originale metafora calcistica – che è un po’ la summa dell’azione di governo di “Mister Conte” – per approdare a “quel sabato notte di coprifuoco del 14 novembre”, quando l’autore ha avvertito “l’urgenza di dar sfogo al dubbio maturato dopo mesi di isolamento”. “A cosa è servito tutto questo? E soprattutto, ha funzionato?”

Di Lorenzo se lo domandava negli scorsi mesi mettendo in guardia dal pericolo di “staccare la spina alla Repubblica” a causa delle misure illogiche e soprattutto incostituzionali che hanno caratterizzato la gestione della fantomatica emergenza, e oggi non smette di farsi domande, di tentare di mettere insieme i pezzi e di ricordare i mesi in cui “sono spariti dal piatto della bilancia i diritti primari e fondamentali della persona umana attraverso i quali esprimere e realizzare, sia individualmente sia in seno alle formazioni sociali cui appartiene, la sua personalità”.

Non c’è – spiega Di Lorenzo passando in rassegna i capisaldi della giurisprudenza – un diritto che può annullare tutti gli altri, neppure se questo diritto è quello alla salute. Con questi presupposti il lockdown non poteva che fondarsi su un “equivoco”, trattandosi di “un istituto sconosciuto (…) che non trova alcuna definizione nel nostro ordinamento” e che pure ha congelato la produttività, le attività, la vita sociale, la cultura e le possibilità di svago di un’intera nazione. Serviva? Era davvero necessario? L’avvocato cerca la risposta attraverso cenni storici, dati e grafici, considerando le misure assunte dal governo e dal Comitato tecnico scientifico.

Lapidarie e definitive le risultanze che riguardano i “decessi per covid”: “L’incertezza sull’acquisizione dei tassi di mortalità – ricorda l’autore del saggio – è ben lontana dall’essere precisa. Esso non distingue, almeno in Italia e almeno nella rilevazione della prima ondata, tra le vittime della malattia e quelle legate a fattori paralleli alla pandemia, come ad esempio le difficoltà di accesso alla normale assistenza sanitaria od alle condizioni preesistenti di comorbidità: si comprendono così le profonde incertezze rispetto ai numeri indicati come “decessi per Covid”, rendendo di fatto impossibile capire se i numeri si riferiscono a persone decedute per coronavirus o per altre cause ad esso indirettamente collegate”. “Speriamo – è l’auspicio che Di Lorenzo affida alla conclusione del volume agile e scorrevole – che questa volta almeno conteremo un numero di morti di gran lunga inferiore grazie alle cure e alle terapie che i nostri eroici medici hanno imparato a somministrare”.

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LIBRI

L’Ufficio Guardiani, la “curva” e il coprifuoco, cosa si è già avverato di “Noi” di Zamjatin

A volte la realtà supera l’immaginazione. E’ il caso del capolavoro distopico russo che ha preceduto 1984 di 26 anni

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L'Ufficio Guardiani, la "curva" e il coprifuoco, cosa si è già avverato di "Noi" di Zamjatin | Rec News dir. Zaira Bartucca

“Sì: integrare la la grandiosa equazione universale. Sì: raddrizzare la selvaggia curva, raddrizzarla secondo la tangente – asintote – seguendo la linea retta. Perché la linea dello Stato Unico è quella retta”. Sembra di essere ai giorni nostri e alla curva del virus o a quella del clima, quando tutto è incentrato alla ricerca dello “zero”: lo zero economico, il contagio zero, le emissioni zero. Sembra di sentire parlare un funzionario di un comitato scientifico dei giorni nostri, e invece no.

Siamo nel 1922, idealmente, ma in realtà molto più avanti. Negli anni ’20 Evgenij Zamjatin immagina una società distopica quanto mai – oggi – attuale, fondata sul culto dell’Integrale, una macchina avvenieristica che assorbe i pensieri di chiunque. Non persone, ma lettere assegnate in base ai difetti fisici (“O” è grassa”, “I” troppo magra e via discorrendo). Icone svampite che si muovono in uno scenario in cui i sentimenti sono dimenticati, e dove sono le decisioni che piovono dall’alto a decidere di ogni aspetto della quotidianità di quello che una volta era l’individuo.

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“Sì: integrare la la grandiosa equazione universale. Sì: raddrizzare la selvaggia curva, raddrizzarla secondo la tangente – asintote – seguendo la linea retta. Perché la linea dello Stato Unico”

“Mi raffreddai. Sapevo cosa significasse mostrarsi sulla strada dopo le 22.30”. A leggere queste frasi e a soffermarsi sull’Ufficio dei Guardiani, non si pensa solo ai lockdown e ai coprifuoco confezionati dai politici europei, ma viene anche in mente una considerazione ovvia: che, cioè, la realtà ha già superato la finzione. Zamjatin, l’ingegnere navale russo prestato alla letteratura, ci è arrivato prima di tutti, e anche prima di quell’Orwell che solo 26 anni dopo pubblicherà il più celebre 1984, che della narrativa distopica presente in “Noi” ha risentito eccome.

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FILM

Finiremo come in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury?

Recnews.it | I pompieri, anziché spegnere gli incendi, li creeranno per accanirsi su libri e giornali? Viene da domandarselo buttando un occhio su banchi a rotelle (che servono proprio a bandire la carta) sulle scuole aperte a singhiozzo e sulle task-force censorie

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Finiremo come in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury? | Rec News dir. Zaira Bartucca

Finiremo come in Fahrenheit 451? I pompieri, anziché spegnere gli incendi, li creeranno per accanirsi su libri e giornali? Viene da domandarselo buttando un occhio sui banchi a rotelle (l’ideale, per eliminare la carta) sulle scuole aperte a singhiozzo e sulle task-force censorie. Di certo, il classico intramontabile di Ray Bradbury va letto almeno quanto 1984 di Orwell. Perché i due non sono solo (assieme a Evgenij Ivanovič Zamjatin di “Noi”, il precursore, e ad Aldous Huxley) i padri di un genere, ma anche dei veggenti letterari. La sorveglianza, i droni, lo strapotere della tecnologia. I quattro (Orwell è stato anche acuto giornalista) avevano previsto tutto.

Finiremo come in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury? | Rec News dir. Zaira Bartucca
La prima versione cinematografica di Fahrenheit 451 (1966)

A Orwell, tra loro, è toccata la sorte migliore, tanto che viene sempre citato e richiamato quando si parla di scenari distopici. Oggi soprattutto, quando nell’anti-utopia ci siamo entrati a piedi giunti, per giunta senza fiatare. Ma se Orwell è stato il genio di un’inquietudine sottile e futuristica tutta contemporanea, Bradbury ha dipinto meglio di chiunque altro l’ottusità di certe teste lavate, piegate e stirate. “E’ un bel lavoro, sapete”, dice Montag a Clarisse, colei che gli aprirà un mondo. “Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman. Ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. E’ il nostro motto ufficiale”.

Finiremo come in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury? | Rec News dir. Zaira Bartucca
La seconda trasposizione cinematografica. E’ del 2018 ed è targata HBO

E quel “è un bel lavoro” forse altro non è che la parafrasi inquietante de “lo smartworking ha i suoi vantaggi” o del martellante “state a casa”. Perché le imposizioni, se si colorano ed edulcorano, se si caricano di significati inesistenti, se si trasformano nell’immaginario collettivo facendole passare per opportunità, si accettano. E ai cervelli più deboli finiscono anche per piacere. Ai bacchettoni, addirittura, creano entusiasmo. E così siamo ben felici di ridurci in mascherina, di screpolarci le mani a suon di gel alcolici, di farci contagiare dai tamponi. Almeno quanto lo era Montag a cancellare la cultura, nell’illusoria convinzione di stare facendo dei gesti utili che, invece, distruggono.

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