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Leonardo Da Vinci visse e operò in molte città: Firenze, Milano, Pavia, Mantova, Venezia, Roma. Gli anni fiorentini furono quelli più lunghi oltre che più prolifici. Nella città toscana il genio poliedrico tornerà dopo aver girato lo stivale in lungo e in largo, cambiato corti e frequentato le personalità più influenti, per un’attaccamento naturale che andava oltre l’arte. In Francia visse dal 1517 al 1519, che coincidono con gli ultimi due anni della sua vita, interrotta a 67 anni. Semplificando, 65 anni furono italiani, due “francesi”.

Pittore “italo-francese”, dipinse la Dama “polacca”. Ma basta vivere due anni in Francia per giungere a forzature come quella di definire Leonardo “italo-francese”? Secondo lo stesso calcolo, Ugo Foscolo, nato a Zante, dovrebbe essere italo-greco. Leonardo nacque a Vinci, paesino toscano, e l’abitudine di secoli ormai lontani di cucire nel cognome la provenienza suggellò (fortunatamente, viste le vicende che caratterizzano la sua figura) quest’ultima. Un paradosso per l’artista più conteso e più “rubato”: in Francia si trova la Gioconda, in Polonia la Dama con l’ermellino (che per assurdo i polacchi considerano un quadro simbolico del loro Stato, una sorta di tela nazional-popolare), a San Pietroburgo la Madonna Benois.

All’Italia restano le briciole. Nel Belpaese che pure gli diede i natali, gli anni della giovinezza ma anche quelli della vecchiaia, sono rimaste opere per un motivo o per l’altro poco apprezzate: tre tele sono formalmente esposte agli Uffizi, polo museale di tutto rispetto che si trova a dover colmare un vuoto ridicolo oltre che inspiegabile. A Parma è conservata un’opera minore degli anni giovanili, la cosiddetta “Scapigliata”, in Vaticano l’incompiuto San Girolamo penitente. A Milano, ma non è una consolazione, si trova la famosa Ultima Cena che, trovandosi in un precario stato di conservazione per i balzelli e l’usura cui è stata sottoposta negli scorsi secoli, non conta su molti occhi che la osservano periodicamente.

Ma perché queste opere si trovano all’estero? Colpa delle smanie di appropriazione che si sono materializzate con il crescere dell’apprezzamento per Leonardo, ma anche delle concessioni di cui l’Italia si è storicamente resa colpevole. Nel trattare la vicenda i revisionisti, per far passare l’idea della permanenza della Gioconda su suolo francese quando Leonardo era ancora in vita, scomodano il segretario di Luigi D’Aragona Antonio de Beatis. Lo stesso che nelle annotazioni dell’incontro tra il genio toscano e d’Aragona, scrive: “el signore con noi altri andò ad videre messer Lunardo Vinci firentino, vecchio de più de LXX anni, pictore in la età nostra excellentissimo, quale mostrò ad sua Signoria Illustrissima tre quatri, uno di certa donna fiorentina, facto di naturale, ad instantia del quondam magnifico Iuliano de Medici, l’altro di san Iohanne Baptista giovane, et uno de la Madonna et del figliolo che stan posti in gremmo de sancta Anna, tucti perfectissimi”.

Ma la “donna fiorentina” non è la Gioconda. In direzione della cronaca di de Beatis va la tesi (frutto di una costruzione a posteriori) secondo cui la Gioconda altri non fosse che Lisa di Antonmaria Gherardini, nobildonna fiorentina che secondo alcuni fu l’amante di Giuliano De Medici. Eppure la rappresentazione della donna del famoso dipinto conservato al Louvre lascia trasparire tutto fuorché di nobile si trattasse. E’ sufficiente fare un raffronto con la Dama con l’ermellino, soffermarsi sui capelli sciolti e sullo sguardo che sfida l’osservatore e sulle rappresentazioni coeve (dello stesso periodo) di nobili e popolane, per capire che si tratti del secondo caso.

“Niente è lasciato al caso” in punto di morte. Il testamento di Leonardo contribuisce a gettare ancora più ombre sulla diatriba francese: è il 1519 quanto Leonardo chiama il notaio Guglielmo Boreau per dividere i suoi averi. Ai fratelli lascerà una rendita di centinaia di scudi, a Salaì (si badi bene a questa figura), il vigneto di cui nei fatti si era già appropriato. All’allievo Francesco Melzi lascia tutto il resto. “Niente – scrive Raffaella Bonsignori – è lasciato al caso”. Salaì (al secolo Gian Giacomo Caprotti), per i revisionisti fu colui che materialmente vendette la Gioconda a Francesco I di Francia. Ma in che modo ne sarebbe venuto in possesso se a lui era destinato solo un vigneto e se è lecito pensare che il quadro fosse in Italia e nelle disponibilità del Melzi, il discepolo che Leonardo voleva tenesse “tutto il resto”?

Sorpresa: le spoglie mortali non sono in Francia. A questo bisogna aggiungere che, in realtà, la salma di Da Vinci non sia più in Francia. La tomba di Amboise altro non sarebbe che un falso, così come lo sono le varie “case” sparse per tutta Italia: di questo parere è, per esempio, Ilario Principe, fiorentino e luminare del settore. Del 1560 è l’opera di devastazione degli ugonotti di San Fiorentino. Sono questi ultimi a distruggere gli arredi della chiesa dove erano state conservate le spoglie mortali dell’artista, e a profanarne la tomba. La chiesa è di nuovo oggetto di devastazione a seguito della Rivoluzione francese, e viene definitivamente fatta demolire nel 1808 da Roger Duclos, prefetto di Napoleone.

La “farsa” francese. Quella che viene imbastita successivamente è un’intera opera di ricostruzione che riguarderà l’intero edificio e anche la “tomba” di Leonardo. Qui vengono gettate tutte le ossa che vengono trovate nell’estinto edificio di San Fiorentino: con buone possibilità Mattarella e Macròn non hanno reso omaggio a Leonardo, ma ad anonimi sconosciuti vissuti nel Rinascimento.

Le opere rimangono italiane. Nulla dunque, giustifica la sorte delle rinomate tele giunte all’estero, se non la smania di chi vuole appropriarsene e il lassismo di 500 anni di mala gestione italiana. Non fa eccezione l’esecutivo “giallo-verde”, che pure ha avuto nella risolutezza di Lucia Borgonzoni a non cedere altro, un momento di concretezza. Il dibattito, tuttavia, fatica a spostarsi verso il punto focale: Leonardo fu italiano, visse in Italia e produsse la quasi totalità delle sue opere in Italia. Non si sfiorerebbe nessun problema diplomatico se, fonti storiche alla mano e messo in conto il parere di esperti autorevoli, si dimostrasse che di francese nel passato del genio italiano non ci sia stato niente altro che una ventina di mesi passati all’estero. E gli erasmus o i viaggi fuori, non fanno degli italiani degli stranieri.

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Decesso Giuliano, l’ASP di Vibo nega le telefonate al 118. I legali della famiglia presentano le prove

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Decesso Giuliano, l'ASP di Vibo nega le telefonate al 118, ma i legali presentano le prove | Rec News dir. Zaira Bartucca

Ci siamo già occupati del caso di Giuseppe Giuliano, l’imprenditore del Vibonese deceduto lo scorso 14 settembre presso l’ospedale Jazzolino (qui la vicenda completa). Dopo la denuncia sporta dalla famiglia presso i Carabinieri di Spilinga per “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali” e dopo la diffusione mediatica dell’accaduto, l’ASP di Vibo Valentia – nella persona del commissario Antonio Battistini – ha inteso fornire la sua versione dell’accaduto, affermando che i medici in servizio al Pronto soccorso non solo avrebbero “operato nel rispetto delle buone pratiche cliniche” ma che, addirittura, la famiglia Giuliano non avrebbe mai allertato il 118.

Un’accusa che ora viene prontamente smentita dallo Studio Legale Vigna che, con la nota difensiva di ben 16 pagine pervenuta alla redazione di Rec News, prova dati alla mano – contrariamente a quanto rilanciato da una testata – che le telefonate al pronto soccorso sono state ben tre. “E’ opportuno precisare – scrive l’avvocato Davide Vigna, patrocinante in Cassazione – che sin dalle precedenti note del 19 e del 23 settembre 2023 era stata richiesta dallo scrivente nell’interesse della persona offesa l’acquisizione, presso il SUEM 118 di Vibo Valentia, delle registrazioni delle telefonate effettuate dai familiari del signor Giuliano Giuseppe nella data del 14 settembre 2023 e dei registri di operatività delle autoambulanze, al fine di scrutinare l’effettiva disponibilità delle stesse negli orari in cui era stato richiesto il soccorso e le modalità delle interlocuzioni avute dall’operatore con i familiari”.

Dall’analisi degli elenchi Vodafone è dunque emerso che le circostanze riportate dal commissario dell’Asp di Vibo Antonio Battistini sono errate, almeno per quanto concerne la dichiarata assenza di telefonate al 118 da parte della famiglia Giuliano. Scandagliandoli è stato infatti possibile appurare che il 14 settembre dal telefono cellulare di Tonycristian Giuliano, uno dei figli del signor Giuseppe, sono partite ben tre chiamate. La prima, delle 13.19, è durata 3 minuti e 40 secondi. La seconda, delle 13.31, 2 minuti e 37. Nella terza, delle 15.09, la famiglia comunicava al 118, scrive l’avvocato Vigna, “che il paziente era già stato recato presso il Pronto soccorso, e che quindi non era più necessario l’arrivo dell’ambulanza”.

Giuseppe Giuliano era davvero così grave all’arrivo all’ospedale Jazzolino?

I legali della famiglia Giuliano smentiscono inoltre anche un’altra circostanza sostenuta dal commissario dell’Asp Antonio Battistini, e cioè quella che riguarda la presunta gravità di Giuseppe Giuliano all’arrivo all’ospedale di Vibo Valentia. Sempre dall’analisi degli elenchi Vodafone è infatti emerso che Giuseppe Giuliano è riuscito a fare due telefonate il pomeriggio in cui è stato posizionato dal personale sanitario su una barella e poi lasciato – lamenta la famiglia – solo a sé stesso senza flebo né strumenti per la rilevazione dei parametri vitali. La prima, delle 17.36, dura 23 secondi ed è al figlio Tonycristian. La seconda, di appena un secondo, alla moglie Anna Maria. Qualche tempo dopo, alle 19.15, stando a quanto ricostruito dalla famiglia e dai legali, il personale sanitario provvedeva a comunicare, in maniera stringata e senza aggiungere motivazioni di sorta, il decesso dell’uomo. Una morte del tutto inaspettata, che per la famiglia è stata come un fulmine al ciel sereno.

“Sia consentito di chiedersi, retoricamente – scrivono i legali della famiglia Giulianocome sia possibile che un paziente giunto al Pronto soccorso in condizioni di gravità – e che, si dovrebbe ritenere sulla scorta di quanto affermato dal Generale Battistini, sarebbe stato immediatamente sottoposto alle cure ed alle terapie del caso – abbia potuto effettuare dall’interno, durante il ricovero e le conseguenti cure e terapie, telefonate ai propri familiari dal cellulare personale“. I legali della famiglia Giuliano ora chiedono alla Procura di Vibo Valentia e alla dottoressa Filomena Aliberti, che cura le indagini, di acquisire i tabulati telefonici. Già inoltrata la richiesta di acquisire le immagini interne del Pronto soccorso, che documenterebbero lo stato di abbandono di Giuseppe Giuliano.

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Ennesimo caso di malasanità all’ospedale di Vibo Valentia. Giuseppe Giuliano morto «solo e senza cure»

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Ennesimo caso di malasanità all'ospedale di Vibo Valentia. Giuseppe Giuliano morto «solo e senza cure» | Rec News dir. Zaira Bartucca

Il diritto al soccorso tempestivo e alle cure in Calabria non è poi così scontato. Essere ricoverati in questa regione, come abbiamo avuto modo di documentare, è spesso un terno al lotto. Vale un po’ per tutte le province, ma per Vibo Valentia e per l’ospedale Jazzolino – ormai al centro di innumerevoli fatti di cronaca, tutti rigorosamente senza colpevoli – vale di più. Lo sa bene la famiglia Giuliano, che da giorni si trova immersa nel dolore per la perdita prematura del loro caro.

Stando a quanto hanno riferito i familiari a Rec News, Giuseppe Giuliano – imprenditore della zona – il 14 settembre dopo un episodio di febbre e brividi inizia ad avere una gamba gonfia, arrossata e dolorante. La famiglia intorno alle 14 chiama il Pronto Soccorso dell’ospedale Jazzolino, ma viene a sapere che i tempi di attesa «sarebbero stati addirittura di tre ore».

Giuseppe viene quindi accompagnato al Pronto soccorso da uno dei figli e dalla moglie. Sta male ma, puntualizzano i familiari, riesce «a salire in macchina e a fare le scale di casa da solo, con le sue gambe». Nulla, insomma, che lasciasse presagire che da lì alle ore che sono seguite sarebbe accaduto l’irreparabile. All’arrivo al pronto soccorso, intorno alle 15, Giuseppe viene preso subito in carico, ma da lì a poco, suo malgrado, inizia un calvario fatto di abbandono e mancanza di interventi che porterà – nel pomeriggio – al decesso.

Il tempo perso per il tampone, alla ricerca del covid che non c’è

Giuseppe Giuliano, dunque, si reca all’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia principalmente perché presenta una gamba gonfia, arrossata e dolorante. Giunto al nosocomio, però, il tempo destinato al primo soccorso di emergenza si perde tra il tampone e la ricerca del virus perduto, il covid: «Giuseppe – puntualizza la moglie – aveva una gamba molto gonfia e arrossata, dunque era andato in pronto soccorso per quei motivi». Dopo la sistemazione alla buona all’interno di una barella, inoltre, la famiglia viene allontanata «per i protocolli covid che non sono più in vigore». E’ l’ultima volta che la moglie Anna Maria e i figli Fabrizio, Stefano, TonyCristian e Dario vedono Giuseppe da vivo, anche se sono ancora convinti che al di là delle porte chiuse qualcuno si stia attivando per prestare tutte le cure necessarie.

Giuseppe lasciato morire da solo, al freddo e senza cure

Sono dunque ore drammatiche scandite da mancate risposte quelle che la famiglia Giuliano si trova a vivere dopo l’accettazione in pronto soccorso. Alle 17.15 un’infermiera riferisce che Giuseppe “è in attesa della TAC”, poco più tardi si susseguono le telefonate del figlio TonyCristian e della moglie Anna Maria. Giuseppe dice di avere freddo, racconta la famiglia, e solo la gentilezza di una ragazza che era lì vicino per un parente fa sì che si possa coprire. Tra gli infermieri, a quanto pare, non ci aveva pensato nessuno. Non sono ancora le 18 quando i familiari non riescono più a raggiungere telefonicamente Giuseppe. Verso le 19.15 una dottoressa e un’operatrice sanitaria si avvicinano ai parenti per comunicare la situazione. La famiglia Giuliano si ritrova così a a dover gestire un secco e improvviso «è morto». Lo hanno detto così, raccontano i familiari, «senza dare alcuna spiegazione o motivazione riguardo le cause della morte e rientrando immediatamente all’interno del Pronto Soccorso».

«Non aveva flebo né macchinari per il monitoraggio dei parametri vitali»

Giuseppe sarebbe rimasto tutto il tempo in barella senza essere sottoposto ad accertamenti. «Abbiamo notato – è quanto fa sapere la famiglia – che non aveva alcuna flebo né alcun altro macchinario per il monitoraggio dei parametri vitali, ad esempio per monitorare il battito cardiaco o la saturazione». Un abbandono totale che ha convinto la famiglia Giuliano ad allertare subito le Forze dell’Ordine. «I carabinieri sono giunti al pronto soccorso dopo circa mezz’ora – racconta la famiglia – ma si sono e chiusi con il medico Paolo Leombroni in un ufficio». Oltre il danno, poi, la beffa: «In serata mi è stato pure detto che la TAC era rotta» racconta Fabrizio, uno dei figli di Giuseppe Giuliano.

La denuncia sporta presso la Stazione dei Carabinieri di Spilinga

Nel dolore della perdita improvvisa subìta e nella consapevolezza di aver assistito a un caso di malasanità, la famiglia Giuliano il 15 settembre presenta una denuncia presso la Stazione dei Carabinieri di Spilinga per “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali”. «Ora che abbiamo fatto partire le denunce – racconta uno dei figli di Giuseppe, Fabrizio – molte persone che spesso non trovano la forza di sporgere denuncia o che vengono avvicinate e scoraggiate, mi hanno contattato riportandomi le situazioni al limite dell’umanità che hanno subito all’Ospedale di Vibo Valentia. Sappiamo per chi facciamo tutto questo: lo facciamo per lui, per noi, per i tanti che non hanno la forza e incassano con rassegnazione e frustrazione. Lo facciamo perché non riaccadano più episodi di sciatteria e di menefreghismo sanitario».

La lettera al presidente della Regione Occhiuto: “In Calabria la vita umana sacrificata sull’altare della negligenza e della sciatteria sanitaria”

Coraggio e motivazione hanno spinto Fabrizio a rivolgersi direttamente al governatore Roberto Occhiuto tramite una lettera aperta: “La tragedia della sanità in Calabria con Vibo Valentia a portare la bandiera – scrive il giovane – continua a essere un’oscura e incivile pagina della storia della nostra Regione. Al pari delle altre regioni d’Italia, il diritto ad essere curati dovrebbe essere garantito, purtroppo tutto ciò a Vibo Valentia non è scontato. Ci troviamo di fronte a una realtà in cui la vita umana sembra essere spesso ignorata. È un sistema marcio, corrotto dall’indifferenza, dall’inerzia e dal malaffare, dove il valore di una vita umana viene spesso sacrificato sull’altare della negligenza, del menefreghismo e della completa sciatteria sanitaria”.

“Sì, proprio così – prosegue Fabrizio Giuliano – “sciatteria sanitaria” perché ogni qual volta si ha bisogno di curarsi si ha l’impressione di percepire un mix di adrenalina e ansia al pari di una puntata alla roulette russa. In Calabria, la morte sembra essere diventata una statistica, un numero tra i tanti. Le persone soffrono e muoiono senza ricevere le cure di cui hanno bisogno, mentre chi dovrebbe proteggerle e curarle sembra voltare lo sguardo altrove. Il dolore delle famiglie, costrette a vedere i propri cari andarsene prematuramente, è amplificato dall’impotenza di fronte a un sistema che non funziona, un sistema appunto marcio da dentro”.

“Questo – continua Fabrizio Giulianoè un appello alla coscienza di tutti noi, ma soprattutto alla vostra, che siete i nostri rappresentanti, affinché si metta fine a questa indifferenza verso la sofferenza umana. Oggi a morire inerme per mano di un’equipe di lestofanti e negligenti è stato il mio caro papà, ma le prometto che non ci arrenderemo di fronte a niente e nessuno pur di arrivare a far chiarezza sulle responsabilità di ognuno. Ogni vita conta, e nessuno dovrebbe morire come se niente fosse, a causa di mercenari sanitari perché i medici, quelli animati da vocazione alla missione, sono ben altro”. La famiglia di Giuseppe Giuliano, vittima di un caso di malasanità, è attiva sui social con l’hashtag #GiustiziaPerGiuliano.

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Viaggio nell’inferno della criminalità giovanile

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Viaggio nell'inferno della criminalità minorile | Rec News dir. Zaira Bartucca

“La mia maggiore aspettativa è sposare un camorrista”. “Eravamo tutti insieme. Un mio amico portò una borsa piena di armi e tutti prendemmo una pistola”. Io vedevo loro sparare e così ho iniziato anch’io”. E’ un viaggio denso e a tratti agghiacciante quello che Giacomo Di Gennaro – ordinario di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale – e Maria Luisa Iavarone – ordinario di Pedagogia – compiono nel saggio “Ragazzi che sparano”, edito dalla casa editrice Franco Angeli.

Oltre duecento pagine in cui si scandaglia – dati alla mano – il tema della devianza giovanile grave, con le sue motivazioni, gli inneschi, la subcultura e tutto l’humus che l’ha fatta e la fa germogliare. Una ricerca, avvertono gli autori, che non è fine a sé stessa, ma che rappresenta il punto di partenza per trovare soluzioni al problema e per interloquire con i soggetti coinvolti: dalle Forze dell’Ordine alla Magistratura, da chi è deputato all’educazione e alla rieducazione a chi ha potere decisionale. Perché l’approccio consolidato, discontinuo e soppressivo, continua a mostrare limiti e debolezze, mentre a dover essere modificati – dicono i ricercatori – sono tutti quei fattori che portano i giovani a scegliere di essere criminali per poter, a conti fatti, permettere di avere uno status. Fosse anche quello di malvivente.

Ma perché si diventa criminali e perché in alcune zone e così facile che si inizi così presto? Iavarone e Di Gennaro rispondono alla domanda evidenziando le costanti dell’agire al di fuori della legalità. Due in particolare, che ricorrono nelle storie degli intervistati dell’IPM di Nisida: la condizione di indigenza e l’evasione scolastica. E’ su questa tabula di azzeramento sociale e intellettivo che le consorterie costruiscono il personaggio tipo utile al perseguimento di comportamenti criminosi che spaziano dai vari traffici all’uso di armi da fuoco, dalle cosiddette “stese” per far sfoggio della propria supremazia sul territorio agli annidamenti nella burocrazia. E’ pur vero che non tutti i poveri e non tutti quelli che non hanno studiato sposano determinati contesti: i due autori spiegano i motivi di questa dicotomia individuando e sondando altri fattori che nel giro di un quarantennio hanno portato al consolidamento della criminalità giovanile e finanche minorile.

Il volume di focalizza sul territorio napoletano raccontato dagli anni ’80 a oggi evidenziando due dati che forse possono stupire: l’ultimo sessennio ha visto un decremento di reati e non è la città partenopea ad avere il primato degli episodi attribuibili alla criminalità radicata tra le fasce di età più giovani, scalzata com’è da Bologna, Milano, Torino e Roma. Colpa del clima omertoso che impedisce di denunciare o merito di alcuni – rari e isolati – pm coraggiosi che distruggono altarini e demoliscono i miti cari ai clan, anche se la Camorra e le altre mafie alla lunga rimangono tutte lì. Perché cambia tutto ma non cambiano le condizioni che permettono al crimine di proliferare, anche se in maniera sempre più endemica, e di trasformarsi diventando quasi invisibile, normale, istituzionalizzato.

Certo, non ci sono bacchette magiche che permettono dall’oggi al domani di resettare tutto. Ma nel Paese che ha 5 milioni di poveri e un milione di minorenni che non hanno possibilità di studiare in maniera adeguata la prevenzione – osservano Di Gennaro e Iavarone – è l’arma che può permettere ai giovani di cambiare idea finché sono ancora in tempo e di capire che perseguire obiettivi leciti e costruirsi da soli, fosse anche con fatica, può permettere di vivere una vita più dignitosa. Lontana, a conti fatti, dai modelli distorti che si decantano in alcune fiction citate nel volume.

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La paghetta per i giornalisti che daranno “priorità alle questioni legate al clima”

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La paghetta per i giornalisti che daranno "priorità alle questioni legate al clima" | Rec News dir. Zaira Bartucca

Dopo i colpi inferti dal governo e dalla riforma Nordio alla Libertà di Espressione, un altro mal costume continua a minacciare l’autonomia di giornalisti e comunicatori. C’è chi tenta di silenziare quelli che fanno il loro lavoro a suon di querele temerarie e di campagne diffamatorie e chi, invece, vorrebbe ridurre i più manipolabili a meri burattini che ripetono a pappagallo gli slogan del politicamente corrotto in fatto di Sanità, di migranti, di Europa, di rapporti sociali. E di clima, ovviamente.

Su quest’ultimo terreno – squisitamente agendista – si concentrano ora le ansie del Centro europeo di Giornalismo, che periodicamente eroga delle paghette, sotto forma di premi, ai giornalisti che “si distinguono” in un determinato settore. Abbiamo già scritto dei finanziamenti da 7500 dollari da parte dello stesso ECJ e della fondazione Bill & Melinda Gates destinati a quei comunicatori che influenzano l’opinione pubblica in tema di Sanità.

Questa volta, invece, il premio – da 2000 euro ed erogato sempre dal Centro europeo di Giornalismo – è per coloro i quali daranno “priorità alla segnalazione di questioni legate al clima” in articoli o reportage pubblicati dal 14 al 17 giugno. Cosa significhi dare priorità non è dato saperlo, ma quel che è certo è che a dare man forte alle narrazioni costruite ci sarà anche Google News, il servizio della Big Tech già multata per propaganda e favoritismi, anche in Italia. In che modo e con quali toni, poi, i giornalisti parleranno e scriveranno di siccità, alluvioni e di “emergenze” climatiche (sapendo che ad attenderli ci sarà una ricompensa), c’è solo da immaginarselo.

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